Mai come negli ultimi anni abbiamo parlato tanto di Africa. In un Paese come il nostro, più a suo agio con la politica interna e le cronache del cortile di casa, siamo stati quasi obbligati a farlo da una serie di eventi che ha rimesso al centro dell’agenda occidentale il tema della stabilità del continente. Segnali di una netta scissione tra passato e futuro sono arrivati dai Paesi che da decenni gravitavano nell’orbita francese. In una realtà diversa, frastagliata e dalle molte sfumature di democrazia declinata in una logica che deve fare i conti pure con povertà diffusa, alti tassi di corruzione e non da ultimo con l’accresciuta presenza jihadista, abbiamo scoperto che non è bastato lavare l’onta del colonialismo per cancellare le scorie di quel passato predatorio. E abbiamo quindi assistito, durante l’estate 2023, a un’epidemia di golpe. Gli ultimi in ordine di tempo: in Gabon (ad agosto) e in Niger (a luglio). Paesi diversi, contesti dissimili. Ma in soli tre anni, sono ben otto i governi rovesciati in sei Paesi del Centrafrica, se consideriamo che Mali e Burkina Faso hanno bissato i rispettivi putsch. Un caso? Tutt’altro. Dai messaggi di odio delle milizie islamiste che soffiano sul Sahel, al forcing di Pechino e Mosca per accaparrarsi pezzi di quell’Africa che sulla carta si vorrebbe invece aiutare a crescere, i colpi di Stato sono la cartina di tornasole di un continente che sta giocando la sua partita con la storia. Piazze di giovani hanno sviluppato una coscienza critica. Si registra da tempo una crescente disaffezione alla lingua francese nelle ex colonie ma pure negli Stati del Nord (Marocco e Algeria) in cui l’influenza di Parigi è stata data a lungo per scontata. In Mali, Guinea e Burkina Faso sono spuntati giovani leader con idee nazionaliste che denigrano a colpi di megafono le vecchie intese con l’Eliseo ma che non sono ancora in grado di tener testa alle pratiche sbrigative dei militari. Sullo sfondo, ci sono una Francia sostanzialmente fuori gioco, messa alla porta, e una Russia sempre più presente in modo diretto e indiretto. I sommovimenti d’estate impongono di puntare il binocolo anzitutto sui fatti, specie dopo aver colpevolmente ignorato ciò che era già accaduto in Mali dove, nel 2013 e poi nel 2014, la Francia aveva schierato un contingente per stabilizzare una fragile democrazia alle prese con i moti d’insurrezione di matrice jihadista. Ben due le operazioni militari lanciate da Parigi: Serval e Barkhane. Senza di esse “non ci sarebbero più il Mali, il Burkina Faso e non sono nemmeno sicuro che ci sarebbe ancora il Niger”, aveva rivendicato il presidente francese Emmanuel Macron. Come sappiamo, però, le cose sono andate diversamente dall’auspicato, con il brusco rientro a casa dei francesi nell’estate 2022. Anche il Niger ha costretto Parigi a ritirare gradualmente truppe ed equipaggiamenti, dopo il golpe militare dello scorso 26 luglio, mentre l’ambasciatore resterà nella sede della capitale Niamey solo per attestare un’influenza transalpina che nel Sahel diminuisce ogni ora di più. Nello stesso tempo, l’Unione europea è costretta ad allontanare come può i venti di un intervento armato nel Niger golpista che rischierebbe di infiammare tutta l’Africa occidentale. Se a Pechino sembra far comodo la stabilità di regimi e governi, Mosca gioca una partita diversa, spesso instillando sentimenti anti-occidentali e giocando su un passato che l’Europa vorrebbe far dimenticare. Lo fa usando spregiudicatamente tutta la retorica anti-colonialista anche per chiedere a taluni Stati sostegno alla guerra in Ucraina: la penuria di grano diventa allora un problema “geopoliticamente indotto”, come ha detto il capo-diplomazia di Mosca, Sergei Lavrov, nel suo tour estivo che ha toccato Kenya e Burundi. La Francia, che la sua gara nel cuore dell’Africa l’ha persa sul campo nonostante Macron non si rassegni, non può invece far altro che vedere certificati i propri errori, ai quali ora l’Unione europea sta provando a far fronte (anche con un ritrovato attivismo degli Stati Uniti di Joe Biden), ma con pochi mezzi a disposizione e soprattutto solo in alcune aree interessate dai putsch. Erano 1.500 i soldati francesi di stanza in Niger. Sulla carta erano lì per aiutare il deposto presidente Mohamed Bazoum nella lotta contro le forze jihadiste nel Paese; questo prima che i militari nigerini lo rovesciassero. Oggi tocca invece all’Ecowas, la comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, lavorare per schierare una forza regionale per “ripristinare l’ordine costituzionale”. Parlare dunque di fallimento francese non è un’iperbole. Del resto, già nel teatro di crisi maliano si era aperta una nuova partita geopolitica, con la Russia che per fare da contraltare alle truppe francesi aveva inviato squadre di mercenari in forza alla brigata privata Wagner a difesa delle nuove giunte militari. Lì come in altri Stati. In Mali il 18 agosto 2020 il presidente Ibrahim Boubacar Keïta, accusato di corruzione, brogli elettorali e considerato il responsabile della crisi economica del Paese, era stato rovesciato. Poi, il 24 maggio 2021, i generali hanno arrestato il presidente ad interim Bah N’Daw e il premier, insediando il colonnello Assimi Goïta. E se la giunta si è impegnata a restituire il posto ai civili dopo le elezioni previste per febbraio 2024, nel mezzo è successo un po’ di tutto: a partire proprio dal ritiro delle truppe francesi che rappresenta un salto nel buio per tutto l’Occidente. Se è quindi vero che la presa di potere da parte dei militari in Africa è accompagnata quasi dappertutto da guizzi di rancore anti-francese, come anche nel pasticciato caso Niger – dove le piazze “civili” mostravano cartelli con scritto “La Francia deve andarsene” e i manifestanti celebravano la festa dell’indipendenza da Parigi facendo scorgere alle telecamere bandiere della Russia al grido di “Viva Putin” – la situazione è ancora molto liquida e dagli esiti imprevedibili. È più sottile in Gabon, dove c’è stato l’ultimo golpe dell’estate 2023: ancora una volta con i militari contro il potere politico. Che in questo caso si sono mossi in modo preventivo. In un Paese dove la maggior parte della popolazione era (e forse lo è ancora) a maggioranza cristiana, la jihad non ha ancora attecchito e fatto danni irrimediabili. Un gruppo di soldati ha comunque annunciato l’annullamento delle elezioni e lo scioglimento di tutte le istituzioni. Il voto si era svolto poco prima, in un clima che lo stesso ambasciatore italiano aveva definito “surreale”, tra Internet tagliato per evitare fughe di notizie e accuse di brogli elettorali all’eterno Ali Bongo, il presidente sostenuto da Parigi che con la sua famiglia (prima di lui, suo padre) governava da oltre mezzo secolo. I militari si sono mossi, a detta loro, per evitare una probabilissima rivolta popolare e sono stati portati in trionfo. Canti, balli e applausi ai camion in parata carichi di soldati nella capitale Libreville. Tutto attorno alle 5 del mattino: prima gli spari, poi le frontiere chiuse, come pure l’aeroporto. Infine, la famiglia del presidente Bongo ai domiciliari. Anche in questo caso, l’Alto rappresentante Ue per la Politica Estera, Josep Borrell, ha ammesso che il colpo di Stato ha colto i 27 di sorpresa. E il Gabon, come il Niger, era considerato esempio di stabilità in Africa. Così almeno aveva assicurato la Francia. Tralasciando per un attimo l’apparente cortocircuito logico che aleggia su quelle piazze che bocciano la presenza di una potenza straniera come la Francia elogiandone subito dopo un’altra, la Russia di Putin, come accaduto in Niger, certe esternazioni non vanno ignorate. Le parole di Macron non aiutano in questa delicatissima fase. La Cina intanto si accontenta di mangiarsi pezzi di territorio africano da cui estrae materie prime, creando micro-aree considerate da anni di proprietà del Dragone, senza intaccare troppo gli equilibri al potere nei rispettivi Stati in cui è presente. Perché gli ultimi colpi di Stato hanno sorpreso la comunità internazionale, che riteneva il Niger il più sicuro tra i Paesi saheliani, con un esercito ben organizzato e finanziato? Per una serie di concause, che l’Eliseo fatica a gestire e ad ammettere. Parigi non riesce per esempio a normalizzare le relazioni anzitutto con Marocco e Algeria, nonostante gli svariati tentativi. È stata bruscamente cacciata dal Mali l’estate scorsa, dopo anni di soldati schierati contro il terrorismo, e il Paese è oggi nell’orbita della Russia (con la Wagner sul terreno). Non è fantapolitica affermare che la Francia probabilmente sapesse del pericolo golpe in Niger e che Macron avrebbe deciso di non intervenire per non sembrare colonialista in un’area considerata strategica per contenere le insurrezioni di gruppi legati ad al-Qaeda e allo Stato islamico. I colpi di Stato non hanno dunque semplicemente fatto a pezzi la Françafrique, ma hanno messo davanti agli occhi (o avrebbero dovuto farlo) una realtà di fronte alla quale non è più possibile fare spallucce, cavandosela con la retorica della cooperazione allo sviluppo. Una realtà che suggerisce di cominciare a pensare a “come” crearlo, lo sviluppo: senza ridurre il contributo occidentale a un’elemosina utile a tenere in piedi il potente di turno. Il “sistema” francese non funziona, lo hanno detto gli eventi. Lascia spazio alla penetrazione jihadista o all’influenza di Mosca. Alla fine l’ha capito pure il presidente Macron che il 7 settembre, dopo la catena di golpe, ha invitato il Parlamento parigino a dibattere in autunno con società civile, ricercatori e Ong un possibile cambio di strategia in Africa e nel Sahel.