Facciamo i conti con la discalculia. Intervista a Luisa Girelli

In Italia un numero che oscilla tra l’1 e il 4 per cento della popolazione scolastica ha difficoltà persistente ad acquisire gli automatismi del calcolo e dell’elaborazione numerica. Non tutti i problemi degli alunni con i numeri, però, sono riconducibili a questo disturbo.

Alunni e discalculia. Capita sempre più spesso, anche al liceo o all’università, che alcuni studenti chiedano di poter usare strumenti compensativi o tempi più distesi per sostenere un esame scritto di matematica. Dicono di essere discalculici. È una situazione nuova, anche solo rispetto a qualche anno fa. Che cosa è successo?  Malati immaginari?  Oppure c’è dell’altro?  Lo chiediamo a Luisa Girelli, docente di psicologia all’Università Milano Bicocca, nonché collaboratrice di Prisma e autrice di numerose pubblicazioni nell’ambito della cognizione numerica e della neuropsicologia del calcolo.

Che cosa succede?

Studenti che faticano in matematica in modo specifico e ingiustificato (quindi anche in assenza di fattori contestuali come ad esempio un insegnante particolarmente ostico o inefficace) ci sono sempre stati, ma solo da poco più di vent’anni si è capito che queste difficoltà possono rappresentare il sintomo di un vero e proprio disturbo. In Italia è stata la costituzione di un sistema normativo di tutela delle persone con disturbi specifici dell’apprendimento, la legge 170 del 2010, a favorire una maggior conoscenza e consapevolezza della discalculia. Prima, le difficoltà di apprendimento venivano attribuite ad altro. I dati di ricerca non sono ancora assestati ma l’incidenza della discalculia sembra oscillare tra l’1% e il 4% della popolazione scolastica. Quindi, al più, 1 studente in un’ipotetica classe di 30 alunni. Detto ciò, aggiungerei che una frequenza molto più elevata di alunni con una diagnosi di discalculia può segnalare la presenza di falsi positivi, vale a dire di diagnosi formulate a fronte di normali difficoltà nell’apprendimento della matematica.

Il vero problema, lasciami dire, è capire perché, nel nostro sistema scolastico, sia normale accettare che le difficoltà di apprendimento in matematica riguardino 1/3 della popolazione, una “sproporzione” che suggerisce una sofferenza epidemica sia di chi insegna sia di chi impara questa disciplina. Forse è giunta l’ora di occuparsi di tutelare l’educazione matematica di tutti, non solo di chi ha una diagnosi di discalculia.

discalcuilia

Che cos’è realmente la discalculia?

È un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) che riguarda l’ambito delle abilità numeriche, alla stregua della dislessia e della disortografia. Indica un deficit, di origine neurobiologica, che si manifesta con una difficoltà, persistente e resistente all’intervento, ad acquisire gli automatismi del calcolo e dell’elaborazione numerica. In altri termini, per cause non sempre note e che sono responsabili di alterazioni strutturali e/o funzionali di alcuni distretti cerebrali, nel corso dello sviluppo emerge un disturbo specifico a padroneggiare i concetti numerici, a memorizzare semplici combinazioni aritmetiche e a raggiungere una buona abilità di calcolo. Il termine “specifico” esplicita che il disturbo interessa un ambito circoscritto di apprendimento, a dispetto in generale di un normale funzionamento intellettivo.

C’è un solo tipo di discalculia?

Si utilizza una singola etichetta diagnostica, si parla cioè sempre e solo di discalculia evolutiva, ma il grado di severità e di selettività del disturbo può essere molto variabile. I profili individuali di bambini e ragazzi discalculici sono estremamente eterogenei. Raramente, le difficoltà in matematica sono conseguenza di un disturbo primario nella comprensione delle numerosità, abilità che ormai sappiamo già presente alla nascita e che funge da supporto all’apprendimento formale dei sistemi simbolici e delle procedure di calcolo. Più spesso, un deficit primario di questo tipo si associa a fragilità di tipo attentivo, di memoria o di automatizzazione. Sono fragilità che incrementano la gravità del disturbo e fanno emergere, già dai primi anni di scuola, segnali di estrema fatica.

Torniamo, se non ti dispiace, all’ambito scolastico. Spesso ci si riferisce alla discalculia come a una caratteristica e non a un deficit. Cosa ne pensi?

L’obiettivo, quando ci si riferisce alla discalculia (o altro DSA) come a una caratteristica della persona, è quello di promuovere una visione “non deficitaria” ma “qualificante” di un modo specifico di funzionare cognitivamente. Una diagnosi di discalculia include sicuramente rilevanti fragilità e debolezze nell’ambito dell’elaborazione numerica e del calcolo così come, magari, punti di forza e/o di debolezza in altri domini cognitivi, da quello verbale a quello della memoria o delle abilità visuo-spaziali. D’altro canto, mi auguro che non tutti gli individui con discalculia considerino il loro disturbo come ciò che li caratterizza maggiormente e, di conseguenza, non ritengo tutelante a priori considerare un DSA una caratteristica della persona piuttosto che un disturbo circoscritto ad un ambito di apprendimento.

Quando ci si accorge che una persona è discalculica?

Dipende in parte dalla gravità del disturbo e dalla sua selettività, fattori che concorrono a determinare il momento in cui si manifesta la discrepanza tra le risorse individuali e le richieste ambientali. Alcuni bambini possono mostrare segnali di difficoltà sin dall’avvio del percorso scolastico, con prestazioni estremamente lente o poco accurate in compiti numerici quali il conteggio, l’ordinamento o il confronto di numerosità; altri possono riuscire a far fronte alle loro fragilità specifiche potendo mettere in gioco ottime abilità cognitive generali. Questi sono tipicamente i ragazzi la cui discalculia si manifesta solo quando le richieste scolastiche aumentano in modo significativo, vale a dire al termine della scuola secondaria di primo grado se non addirittura alla scuola superiore.  In ogni caso, in Italia, la diagnosi non può essere formulata prima del termine della terza elementare ed è basata sulla presenza dei seguenti elementi: a) una prestazione molto bassa a prove standardizzate con buone proprietà psicometriche; b) severe conseguenze adattive, c) persistenza del problema nella storia scolastica; d) esclusione di fattori estrinseci. Purtroppo, in assenza di indicazioni specifiche rispetto agli strumenti e alle misure con cui valutare la competenza in oggetto, questi parametri risultano necessari, ma non sufficienti. E soprattutto, in questo ambito disciplinare, troppo spesso si incorre in un circolo vizioso e fine a se stesso, per cui obiettivo dell’insegnamento sembra essere “ottenere una buona prestazione in matematica” e obiettivo dell’eventuale valutazione clinica sembra essere “certificare una bassa prestazione in matematica”.

Ci sono atteggiamenti che favoriscono la discalculia?

La discalculia, lo ripeto, ha un’origine neurobiologica: è l’esito di fattori genetici ed epigenetici, mentre i fattori ambientali ne modulano l’espressività ma non la natura stessa di disturbo. In altri termini, non ci sono atteggiamenti che favoriscono la discalculia. Detto questo, è certamente vero che sono molti i fattori (familiari, socio-culturali, scolastici) che concorrono a favorire il fenomeno. Anche quello dei falsi positivi. La matematica è l’ambito di apprendimento a cui si attribuisce una maggior connotazione emotiva. La si può odiare oppure amare, ma difficilmente le si è indifferenti. È una polarizzazione consolidata dai tanti falsi miti che la riguardano, come pensare che essere bravi in matematica sia indice di intelligenza e che essere portati per la matematica sia solo espressione di un talento, oltretutto distribuito in modo non casuale nel genere maschile e femminile! Questi sono solo alcuni esempi delle molte misconcezioni che favoriscono, tra i banchi di scuola ma non solo, un atteggiamento evitante, arrendevole e negativo verso una disciplina che, come anche questa rivista dimostra, ha molto da dire non solo come materia curricolare ma soprattutto come strumento di vita.

Che cosa si può fare?

Una esaustiva valutazione funzionale è strumento indispensabile non solo per poter formulare una diagnosi ma soprattutto per identificare in modo preciso gli aspetti di fragilità e quelli di forza. È questa comprensione del funzionamento individuale che permette di predisporre, ad opera di uno specialista, un percorso di potenziamento che possa sortire effetti a lungo termine. La valutazione è già il primo momento di “cura” perché può aumentare la consapevolezza individuale indispensabile per sviluppare e mettere in atto buone strategie compensative.