Gradi di libertà

Il lavoro di uno scienziato che connette menti e macchine aiuta una donna paralizzata a superare le limitazioni del suo corpo

Edizione integrale dell’articolo Gradi di libertà pubblicato su PRISMA n. 4 (gennaio-febbraio 2019).

Jan Scheuermann è paralizzata dal collo fino ai piedi da diciotto anni. Alta un metro e ottanta, passa giorno e notte in una sofisticata sedia a rotelle, alimentata a batteria, che la sorregge dalla testa ai piedi in una postura a metà fra seduta e distesa. La sedia è diventata a tutti gli effetti pratici un’estensione del suo corpo. Per interagire con il mondo da lì, Scheuermann manovra con il mento un joystick con l’estremità di sughero: in questo modo è in grado di muoversi con un’agilità notevole, seppure limitata dalla sua statura, dal peso della sedia e dalla natura ineliminabile della gravità e della materia. Comunque al telefono si può anche non percepire la sua disabilità: ha un tono di voce morbido, uno humor pungente e dei modi affabili. Ogni tanto si ferma a inspirare mentre parla: le serve perché deve azionare i polmoni in modo conscio, anche se quasi non si nota nella conversazione. Grazie alla fibra ottica, le sue parole sono convertite in informazioni digitali immateriali che arrivano come in volo.

Il nostro primo incontro è stato al telefono. L’avevo chiamata a casa, a Pittsburgh, dopo aver saputo della sua partecipazione a un esperimento di neuroscienze che le aveva consentito di eludere, almeno in parte, i confini del suo corpo immobilizzato. Scheuermann è una delle pochissime persone in America ad aver utilizzato un’interfaccia diretta cervello-computer, un assemblaggio complesso di tecnologia (innesti corticali simili a transistor, cablaggi, decodificatori algoritmici, robotica, tutti ai primi stadi di sviluppo) progettato per fondere menti e macchine.

LE ARTICOLAZIONI DI UN BRACCIO UMANO, DALLA SPALLA ALLA PUNTA DELLE DITA, POSSONO EFFETTUARE TRENTA MOVIMENTI DISCRETI, OGNUNO DEI QUALI È CONSIDERATO UN “GRADO DI LIBERTÀ”.

Per decenni l’idea di collegare un cervello a un computer è stato un caposaldo della narrativa cyberpunk, non delle biotecnologie («Mi collego e non sono più qui» spiega un personaggio di Neuromante, il romanzo pubblicato nel 1984 da William Gibson). Il nostro cervello è l’oggetto più complicato dell’universo noto: uno solo contiene più contatti elettrici di quante siano tutte le galassie dello spazio siderale. Comprendere il funzionamento dei suoi ottantasei miliardi di neuroni è una sfida per la scienza al pari dei viaggi interstellari.

Scheuermann non è stata sempre in quelle condizioni. Seconda di nove fratelli, è cresciuta a Pittsburgh negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. La sua giovinezza si è svolta in un mondo autosufficiente e ben delimitato: famiglia, scuola, chiesa, tutto a distanza di qualche isolato. Il padre faceva il fornaio e la domenica Jan lavorava nel suo negozio di ciambelle, vicino alla scuola. Le piaceva leggere gialli; quando poi andò all’università di Pittsburgh, studiò scrittura professionale e dopo la laurea fondò una società, la Deadly Affairs, che metteva in scena murder parties a casa dei clienti. Gli invitati vestivano in modo un po’ stravagante e recitavano parti scritte da lei, che impersonava l’ispettore Clueless (“Inetto”), un investigatore perplesso che aiutava a mandare avanti la storia.

Grazie a questa attività conobbe il futuro marito e nel 1987 si trasferì in California con lui. Ampliando la Deadly Affairs, partecipò allo spettacolo “La ruota della fortuna” e ad altri giochi a premi. Agli inizi degli anni Novanta aveva già due figli. Jan stendeva nuovi copioni e la sua vita era come la voleva lei.

Nel 1996, mentre era nel salotto di un cliente a organizzare una delle sue avventure, Scheuermann sentì improvvisamente le gambe pesanti e intorpidite. Pensò a suo padre, morto a settantacinque anni di sclerosi multipla, una patologia che tende a essere ereditaria. Quella sera, a letto, cercò di non agitarsi, dicendosi che era una sensazione dovuta unicamente alla stanchezza.

Infatti con un po’ di riposo la sensazione sparì, ma si ripresentò poco dopo e prese a diffondersi. I suoi medici esclusero la sclerosi multipla, ma senza riuscire a fornire una diagnosi e questa incertezza alimentò le sue preoccupazioni. Scheuermann cominciò a usare un bastone e poi una sedia a rotelle. Nel 1998, temendo di morire, si trasferì di nuovo con tutta la famiglia a Pittsburgh, in maniera che i parenti potessero prendersi cura dei figli.

Nella città natale la vita di Scheuermann prese un’altra strada. Lì i dottori formularono una diagnosi di degenerazione spinocerebellare, una malattia rara che distrugge le vie di comunicazione fra il cervello e la spina dorsale; anche se non era curabile, la concretezza della diagnosi le diede una specie di sollievo. Le diedero del Prozac, che alleviò una crescente depressione.

Quando i figli se ne andarono di casa per studiare all’università, Scheuermann provò una grande sensazione di vuoto, ma grazie all’antidepressivo e al sostegno degli amici si riprese e scrisse un poliziesco ironico, Sharp as a Cucumber: A Brenda LaVoom Mystery.

Poi, a ottobre 2011, un’amica le inviò un filmato YouTube di un ragazzo, Tim Hemmes, rimasto paralizzato dopo un incidente in moto. Il video ne documentava il lavoro con ricercatori dell’università di Pittsburgh, a cui collaborava l’esercito statunitense: era un’impresa scientifica assolutamente nuova. Si trattava di un programma con un finanziamento di oltre cento milioni di dollari per sviluppare protesi sofisticate che potevano essere controllate direttamente dal cervello umano.

Con un’operazione chirurgica a Hemmes erano stati impiantati microsensori su WAFER tra il cranio e il cervello, per consentirgli di muovere un braccio robotico con cui aveva potuto anche prendere per mano la sua ragazza, per la prima volta dopo tanto tempo. Il filmato si chiudeva con lui che diceva, con lo sguardo in macchina: «Credo con tutto me stesso che questo sia il futuro. Chiunque là fuori ha il coraggio e la voglia di provarci, lo faccia!». Il lavoro con Hemmes era solamente uno studio-pilota. I ricercatori, in vista di una sperimentazione effettiva, avevano bisogno di un altro paziente. Appena finì di guardare il video, Scheuermann volle assolutamente candidarsi: «Morivo dalla voglia e pensavo solo a una cosa: muovere quel braccio robotico con la mente!» mi ha rivelato.

L’animale uomo è una creatura di movimento. Per ognuno di noi, il dono della coscienza risiede in un veicolo di cellule, fatto di ossa e sangue, pelle e grasso, guidato dai muscoli, insomma un corpo «ingegnoso nel gioco di tendini e nervi», per dirla con Walt Whitman. Dentro di noi lavorano in automatismo un muscolo cardiaco e tantissimi altri muscoli lisci, i motori invisibili della nostra vita. A essi si aggiungono centinaia di muscoli striati, su cui agire intenzionalmente per poter correre una maratona, suonare musica, scrivere e parlare.

Come fa la mente a dare indicazioni al corpo per muoversi è un mistero il cui studio ha assorbito per oltre trent’anni Andrew Schwartz, un neuroscienziato dell’Università di Pittsburgh. Sembrerebbe ragionevole attendersi che questa relazione, così importante, sia ormai nota, ma la catena di eventi che va, mettiamo, dalla scarica dei neuroni a un pugno sul naso resta ancora argomento di accese discussioni scientifiche.

Schwartz, la cui ricerca è stata fondamentale per aiutare Hemmes a muovere il suo braccio robotico, aveva una sua posizione ben precisa in quelle controversie ed è anche un pioniere nel campo delle protesi neurali. Dall’ultimo decennio del secolo scorso, Schwartz si è impegnato con un piccolo gruppo di scienziati a sviluppare un sistema in grado di aggirare il corpo e tradurre l’attività mentale di base in movimenti robotici.

In un ambiente scientifico rarefatto, spesso chiassoso, talvolta amaro, di rado Schwartz ha cercato di attirare l’attenzione sul proprio lavoro. Eppure il suo approccio incrementale ha prodotto risultati notevoli e gli ha fatto guadagnare la reputazione di ricercatore scrupoloso, a suo agio tanto con la bioingegneria quanto con le neuroscienze.

Il filmato di Hemmes era l’esito di una ricerca intellettuale, che metteva assieme il viaggio personale di Schwartz nella scienza del cervello e lo sforzo di costruire il braccio robotico antropomorfo più elaborato al mondo, con il sostegno della parte più eterodossa della burocrazia federale: la DARPA, Defense Advanced Research Projects Agency (l’agenzia della Difesa per i progetti avanzati di ricerca).

Schwartz è cresciuto vicino a Minneapolis. Ha la corporatura massiccia e la carnagione rubizza di un appassionato di ciclismo. Tende a stare in silenzio, ma ha opinioni scientifiche molto decise, che spesso trapelano da dietro la patina di imperturbabilità. «I movimenti sono bellissimi e voglio ripristinare quella bellezza» mi ha detto una volta. «Quando i tecnici dicono “Ma che diavolo, potresti fare la stessa cosa con una pinza e una calamita: bastano per tirare su qualcosa e spostarla”, rispondo qualcosa come: “Certo, ma non è quello che voglio fare io!”. Ogni volta che ci muoviamo, c’è un modo molto efficiente, elegante e quasi semplicistico di farlo».

Schwartz capì qual era il lavoro della sua vita quando era al secondo anno nell’Università del Minnesota, nel 1975: convinse un neurofisiologo a concedergli una parte del suo laboratorio per testare un’idea che sperava potesse guarire le lesioni spinali. Il suo esperimento non portò a una cura, ma lo mise in contatto con altri ricercatori che cercavano di scoprire le leggi matematiche che definiscono i nostri corpi in movimento, proprio come aveva fatto Isaac Newton per gli oggetti inanimati. Chiamavano psicofisica il loro campo di studi. Dato che l’oggetto delle loro indagini era il comportamento umano, spesso la parte fisica tendeva a proporre enigmi nel campo biologico. Perché, tanto per fare un esempio, una persona che traccia un otto in aria non riesce praticamente mai a disegnare i due cerchi sullo stesso piano, indipendentemente da quanto appaiano allineati bene all’occhio umano? Come scrisse nel 1899 uno dei pionieri di questi studi, R.S. Woodworth, «Possono sorgere dei dubbi sul fatto se il mio lavoro sia effettivamente di ambito psicologico o fisiologico. Sicuramente il campo dei movimenti volontari sta al limite, come quello delle sensazioni».

90%, SECONDO IL PROFESSOR SCHWARTZ, È LA PERCENTUALE DELLA FASE BALISTICA DI OGNI GESTO

Schwartz fu attratto da questo limite. Divorò le pubblicazioni di Woodworth e ripercorse la letteratura sull’argomento fino a Paul Fitts, uno psicologo attivo negli anni Cinquanta presso la base aerea Wright-Patterson. Mentre cercava di progettare la migliore cabina di pilotaggio, Fitts aveva capito che era possibile racchiudere in un’equazione il percorso del braccio di un pilota verso uno strumento o una manopola posti su un pannello di controllo e che in quell’equazione erano compresi la dimensione e la distanza dell’oggetto da raggiungere.

La legge di Fitts, era nota così, sembrava rivelare un ordine matematico nascosto nel lavorio del corpo. «Fu quella parte ad attirarmi», mi ha detto Schwartz. Era convinto che il braccio umano combinasse insieme semplicità, forza, astuzia e grazia: una meraviglia dell’evoluzione che era una parte essenziale dell’esperienza umana. Eppure i meccanismi cognitivi che lo mettevano in opera erano sconosciuti e ponevano quello che chiamava “il problema del controllo definitivo”.

Schwartz decise di prendere un dottorato in neurofisiologia, sempre all’università del Minnesota. Propose una ricerca sui gesti del braccio utilizzando le scimmie, ma l’università non riuscì a trovargli dei primati e così dovette inventarsi un esperimento che studiasse come i gatti reagissero a interruzioni forzate dei loro movimenti: “fare lo sgambetto ai gatti”, come diceva scherzosamente. Quasi privo di finanziamenti, si dovette arrangiare. «In pratica dicevano “Eccoti cinquanta dollari”», rammenta. «Di solito prendevo del materiale dismesso e inutile e lo riadattavo». La volta che gli serviva un tapis roulant per i suoi gatti, ricorse a una levigatrice a nastro azionata a mano. L’esperienza gli insegnò come forgiarsi gli strumenti di cui aveva bisogno, come adoperare gli animali negli esperimenti e come analizzare a fondo i problemi scientifici, anche se tutto ciò lo fece allontanare dal suo interesse primario sul funzionamento del braccio.

Verso la fine del dottorato, nel 1983, un docente gli chiese se avesse preso in considerazione l’idea di continuare la ricerca anche dopo e gli suggerì di mettersi in contatto con Apostolos Georgopoulos, un neuroscienziato della Johns Hopkins University.

L’anno prima, Georgopoulos aveva pubblicato un articolo in cui proponeva una concezione assolutamente originale di come il cervello governi il corpo. Ci sarebbero voluti anni di ricerche per capire se si trattava veramente di una strada fruttuosa. Schwartz ne fu comunque stimolato: le intuizioni di Georgopoulos sfioravano tutto ciò che era importante per l’ambito umano. Il nostro senso del sé e degli altri, il nostro modo di formulare idee spesso sono plasmati da come ci muoviamo e da come ci aspettiamo che si muovano gli altri. Se Georgopoulos aveva fatto un passo verso la soluzione di quel problema, che cosa ne sarebbe seguito? Dopo averlo incontrato, Schwartz gli chiese se poteva lavorare con lui, per aiutarlo a portare avanti la sua rivoluzione.

Quando Schwartz si preparava a iniziare il suo post-dottorato, la neuroscienza del movimento volontario era ancora agli albori. La corteccia motoria (una parte della corteccia cerebrale che è associata direttamente al movimento) era stata scoperta da appena un secolo, nel 1870, quando due ricercatori a Berlino avevano sondato i cervelli di cani legati su un tavolo, provocando delle contrazioni muscolari di risposta.

L’area sensibile andava dalla sommità della testa alle orecchie, come le due metà di una fascia. All’inizio del Novecento, vari ricercatori stimolarono la corteccia motoria di animali anestetizzati e riscontrarono che aveva aree corrispondenti a gruppi di muscoli: parti del corpo che richiedevano grande destrezza, come le mani, occupavano una superficie assai più ampia di quella necessaria ad altre parti meno specializzate. Solamente negli anni Sessanta del secolo scorso gli scienziati riuscirono a capire come studiare la corteccia motoria in primati desti, osservando cosa succedeva mentre il corpo si muoveva.

Quando Schwartz frequentava l’università, l’opinione prevalente sulla corteccia motoria era che funzionasse come un tecnico: calcolava le forze richieste a muovere le articolazioni e indicava ai muscoli come contrarsi. Invece Georgopoulos sostenne che la corteccia motoria si occupava principalmente della geometria del movimento umano nello spazio. Da questo punto di vista, era più simile a un controllore del traffico aereo che tracciasse le rotte aeree degli arti, lasciando ad altre parti del sistema nervoso il compito di fornire istruzioni ai muscoli.

Georgopoulos era giunto a questa conclusione addestrando alcune scimmie a muovere le braccia sopra un tavolo in modo da tracciare un segno con una forma simile a un asterisco. Mentre osservava questi movimenti, monitorava anche grappoli di neuroni nella corteccia motoria e notò che ogni cellula sembrava “sintonizzata” su una certa direzione preferita, come se fosse impostata su una bussola interna. I neuroni sintonizzati verso il nord geografico, per esempio, si attivavano al massimo quando il braccio si preparava a dirigersi a nord. Se il braccio si muoveva verso nord-nord-ovest, si attivavano lo stesso, ma con un’intensità minore del trenta per cento. Questo calo nell’attivazione era prevedibile matematicamente, e ciò consentì a Georgopoulos di decodificare il comportamento delle cellule. L’attivazione di un singolo neurone non permetteva sempre di prevedere un gesto, mentre l’attivazione contemporanea di qualche centinaio di neuroni offriva un segnale forte, da cui poteva ricavare un vettore che descriveva la direzione verso la quale si muoveva il braccio. Le cellule esprimevano questa informazione qualche millisecondo prima che il corpo agisse. Georgopoulos pensò che forse intravedeva il funzionamento del cervello nell’atto di elaborare le proprie intenzioni.

L’adesione alle idee di Georgopoulos avrebbe potuto costare la carriera a Schwartz, che però trovava la ricerca accurata e coinvolgente e non vedeva l’ora di portarla avanti. Poco dopo aver sposato la ragazza che aveva al college, Lisa Schroepfer, si trasferì con lei nel Maryland nel 1984. Lisa ottenne un posto alla Johns Hopkins per un notiziario medico, mentre lui si dedicò al lavoro in laboratorio. L’esperimento di Georgopoulos aveva dimostrato che la sintonizzazione verso una certa direzione valeva nelle due dimensioni; il passo successivo era di verificare se funzionava anche in uno spazio tridimensionale. Così Schwartz impostò un esperimento nel quale alcune scimmie, racchiuse dentro una grande sfera, si allungavano per raggiungere obiettivi posti sulla superficie.

Il lavoro era faticoso e chirurgicamente invasivo. In primo luogo bisognava rimuovere una parte del cranio dell’animale. Poi Schwartz inseriva con molta cura nel cervello un elettrodo rivestito di vetro, che effettuava letture dei neuroni mentre l’animale muoveva il braccio. Dato che una distanza di qualche micron faceva la differenza tra segnale e rumore, Schwartz doveva fissare attentamente lo schermo di un oscilloscopio mentre inseriva la sonda. «È come stare in un sottomarino e utilizzare un sonar per capire cosa stia succedendo» mi ha detto. «Sei in un altro mondo». La sonda poteva registrare segnali soltanto da uno, al massimo due neuroni alla volta. Dopo la lettura, Schwartz si metteva a caccia di un’altra cellula e ripeteva così la stessa procedura centinaia di volte, mentre l’animale eseguiva la stessa azione continuamente. Dopo metteva assieme i dati così ottenuti per dare un senso al lavoro di concerto dei neuroni.

Dopo mesi di ricerca, trovò che il modello funzionava effettivamente anche a livello tridimensionale. I risultati gli valsero una copertina sulla rivista Science.

Per Schwartz quella pubblicazione fu un trionfo accademico, ma altri neuroscienzati accolsero le sue idee con notevole scetticismo. «Me ne andavo in giro a cercare posti di lavoro e dare conferenze, mentre la gente diceva: “Ma è tutto sbagliato! Si sa che la corteccia motoria è agganciata ai muscoli”». Nel 1987 Schwartz scelse un posto al Barrow Neurological Institute, una piccola struttura appena fondata a Phoenix, in Arizona. Era il più lontano possibile dai centri della neuroscienza americana, ma fu attratto dall’atmosfera monastica del luogo. Si trasferì con sua moglie in un appartamento che si affacciava sul parcheggio dell’istituto. «C’erano più di quaranta gradi» mi ha detto. «Ti bruciavi i piedi sul parcheggio. Ogni giorno andavo a piedi al mio laboratorio, tornavo per pranzo e poi di nuovo al lavoro».

Schwartz era sicuro che le idee di Georgopoulos potessero essere portate ancora più avanti. La ricerca che aveva svolto alla Johns Hopkins era limitata a movimenti del braccio che tracciava linee rette. Per capire come venissero concepiti i movimenti effettivi, con tutte le loro curvature e complessità intrinseche, era necessario sapere come si comportava il cervello momento dopo momento, come effettuava minuscole correzioni al volo, relative non soltanto alla direzione, ma anche alla velocità.

QUANDO OSSERVIAMO UN’AZIONE, SPESSO IL NOSTRO CERVELLO RISPONDE A QUEL COMPORTAMENTO COME SE FOSSE IL NOSTRO: SE OSSERVIAMO UNA PERSONA CHE USA UN CACCIAVITE, ALCUNI DEI NEURONI NELLA CORTECCIA MOTORIA SCARICANO COME SE FOSSIMO NOI AD AVVITARE.

La tennista Venus Williams colpisce una palla di rovescio. Picasso disegna una linea verso il basso. Un soldato saluta un ufficiale. Una signora anziana scrive una lettera a sua nipote. I nostri corpi in movimento sono definiti da un’alchimia unificata di velocità e direzioni quando tracciamo parabole, lemniscate, curve a tridente, spirali di Poinsot e altre traiettorie prive di denominazioni matematiche. È impossibile calcolare una traiettoria senza tener conto della velocità di un oggetto. Disegniamo un cerchio: se ci spostiamo troppo velocemente verso l’alto o di lato (e se non compensiamo cambiando direzione mentre acceleriamo) finiremo per avere un ovale. La velocità può flettere un arco.

Schwartz addestrò alcune scimmie a tracciare forme curvilinee su schermi tattili, progettati per gli sportelli del bancomat (in seguito si fabbricò un suo dispositivo di tracciamento), nella speranza di concepire la formula in grado di esprimere come la velocità sia codificata nella corteccia motoria. Esplorò moltissime possibilità attraverso decine di migliaia di rilevamenti, solo per scoprire che aveva la risposta proprio davanti agli occhi: i neuroni che erano sintonizzati verso una certa direzione erano gli stessi che risultavano sintonizzati sulla velocità. I neuroni producono soltanto un segnale semplice (cioè, o si attivano o non si attivano), ma sono anche in grado di esprimere informazioni su più di una cosa allo stesso tempo. «Questo mi colpì davvero» mi ha confessato. Nel 1992 Schwartz cominciò a pubblicare articoli che documentavano il suo lavoro. In uno c’era un paio di diagrammi deliziosi: un tracciato, che rappresentava il dito di una scimmia nell’atto di disegnare una spirale, sovrapposto a un altro tracciato, ricavato dal funzionamento della sua corteccia motoria: le due traiettorie arcuate, una relativa al cervello, l’altra al corpo, erano praticamente identiche.

Poco dopo aver cominciato a rendere pubblici questi diagrammi, Schwartz ricevette una telefonata da un dirigente dei National Institutes of Health (Istituti nazionali di sanità, l’agenzia del Dipartimento statunitense della salute, preposta alla ricerca biomedica, ndT) che li aveva letti e non riusciva a credere che fossero accurati. Per anni i NIH avevano tentato in tutti i modi di sviluppare innesti cerebrali per ripristinare funzioni perse a seguito di un trauma o di una malattia. Dopo aver visionato le conclusioni a cui era giunto Schwartz, il dirigente voleva sapere come si potevano adoperare quei risultati per un dispositivo medico. Schwartz suggerì di usarli per controllare braccia robotiche che aiutassero le persone paralizzate a mangiare da sole. Ricorda che il dirigente gli chiese «Pensa di poterli usare davvero per le protesi?» e che gli rispose «Certo!».

Quella telefonata mise Schwartz su un percorso accademico ben diverso, che puntava alle frontiere della bioingegneria. Raccolse i soldi necessari a fondare un grande laboratorio presso la Arizona State University, una delle prime a concentrarsi esclusivamente sull’integrazione diretta fra robotica e cervello. Dotò il laboratorio di tecnici a cui non interessavano discussioni sul funzionamento della corteccia motoria; presero la sua ricerca come un passo verso una tecnologia che poteva cambiare la vita delle persone e Schwartz trovò elettrizzante il loro entusiasmo. «Era la libertà» mi ha detto.

La vecchia maniera che aveva Schwartz di fare ricerca (cioè, sondare con un solo elettrodo un cervello messo a nudo) doveva cambiare. Un impianto con cui una persona potesse vivere avrebbe dovuto essere in grado di registrare i dati da più neuroni simultaneamente e trasmetterli senza bisogno di un cranio aperto. I NIH avevano fatto grandi passi in avanti nello sviluppo di questa tecnologia, ma gli ostacoli tecnici erano ancora enormi. Il cervello è affollato, umido, in continuo mutamento, ricco di sali e ricettacolo di grandi cellule che tendono a inglobare oggetti estranei nel tessuto cicatriziale; un sensore alloggiato nella corteccia doveva essere progettato come un robot costruito per un pianeta ricoperto da una giungla caliginosa. Allo stesso tempo, un dispositivo inserito nel cervello presentava molti rischi per il tessuto vivente. Una soluzione attuata dai bioingegneri era costituita da fasci di microcavi in grado di leggere da una decina di neuroni contemporaneamente; un’altra era la matrice di microelettrodi, ossia minuscoli quadratini coperti di punte che ricordano le spazzole delle bambole, adatti a essere schiacciati sulla superficie paludosa del cervello.

Grazie alla collaborazione con i NIH, Schwartz poté accedere a una comunità molto unita di ricercatori che trattavano il problema degli impianti neurali come i calcoli per il limite di carico di un ponte. Una volta all’anno quasi duecento di loro si riunivano presso la biblioteca principale dei NIH, a Bethesda nel Maryland, per parlare di problemi esoterici che avevano affrontato con estrema tenacia. Schwartz ricorda: «C’era un tipo che da anni inzuppava diversi elettrodi e connettori in soluzione salina riscaldata e adesso veniva a raccontarci come si comportavano». I pionieri dell’impianto cocleare seguivano questi seminari; altri ricercatori cercavano di costruire una protesi per l’occhio. Schwartz apparteneva a una delle tribù più piccole, concentrata sulla corteccia motoria.

Per fare una presentazione di grande impatto, Schwartz aveva bisogno di trovare un braccio robotico antropomorfo. «Un problema enorme» mi ha detto. «Semplicemente, non li costruivano». Il suo gruppo raggiunse potenziali fornitori in tutto il mondo, chiamando persino un’azienda che costruiva un avatar meccanico di Abramo Lincoln per Disneyland. Le braccia erano azionate da un compressore grande quanto un frigorifero e una sola costava già duecentomila dollari. Il gruppo continuò a cercare. Alla fine trovò un dispositivo pratico, chiamato Zebra Zero. Per collegarlo alla corteccia motoria di una scimmia, Schwartz si servì di un impianto con microcavo, provvisto di sottilissimi fili metallici che andavano infilati con la massima cura nel cervello. «Ci vogliono venti minuti» ha detto. «Mentre operi, il cervello si raggrinzisce, quindi non sai mai bene quanto penetra, perché col tempo tornerà anche a distendersi nuovamente». Al seminario del 1999, Schwartz mostrò un video dei suoi risultati: una scimmia con impianti premeva dei tasti, mentre la Zebra Zero, in un’altra stanza, ne riproduceva grosso modo i movimenti.

Con il miglioramento qualitativo dell’hardware, crebbero anche le possibilità di sperimentare la robotica comandata dal cervello su un essere umano e aumentò anche la concorrenza. Un gruppo della Brown University stava ammassando capitali di rischio nella corsa per accaparrarsi l’approvazione della Food and Drug Administration (l’ente del governo americano per i prodotti alimentari e farmaceutici) di un nuovo dispositivo: una matrice di novantasei microelettrodi, nota come matrice Utah, che prometteva di funzionare bene nella corteccia motoria dell’uomo. Il gruppo della Brown contava di utilizzarlo per collegare a un computer un paziente paralizzato.

Nel 2002 Schwartz si trasferì all’Università di Pittsburgh, che gli aveva fatto sapere di essere disposta a sostenerlo nel caso avesse deciso di intraprendere sperimentazioni cliniche. Ci restò due anni, allestendo il suo laboratorio con i primati. Non pensava a surclassare la Brown, ma stava facendo ancora grandi progressi quando un evento inatteso gli venne incontro. La Defense Advanced Research Projects Agency aveva deciso di lanciare il progetto più ambizioso mai tentato per controllare con il cervello dispositivi robotici ed era curiosa di sapere se era interessato a parteciparvi. Schwartz voleva lavorare per l’apparato militare?

La DARPA fu creata nel 1958, quando il lancio del satellite sovietico Sputnik sconvolse l’establishment scientifico americano. Con la duplice missione di precorrere le sorprese tecnologiche e di crearle, aveva passato quasi sessanta anni a finanziare progetti che sembravano usciti da un fumetto. Negli anni Sessanta, la DARPA aveva fissato le basi tecniche per internet. In seguito contribuì allo sviluppo di programmi di traduzione automatica dal parlato, della navigazione tramite GPS e di aeroplani invisibili ai radar. Aveva cercato anche, con meno successo, di sviluppare veicoli spaziali a propulsione nucleare. Schwartz mi ha detto: «La DARPA fa fantascienza, roba con la testa fra le nuvole».

Fin dai suoi inizi la DARPA si era chiesta se fosse possibile avvicinare di più i computer alle menti, ma l’interesse per l’inserimento diretto di dispositivi elettronici nella corteccia si manifestò solamente dopo che i seminari dei NIH dimostrarono che la tecnologia era sufficientemente matura. Nel 2002 l’agenzia creò un programma, chiamato “Brain-Machine Interfaces” (Interfacce cervello-macchina), che diede una base scientifica allo sviluppo di impianti cognitivi in grado di potenziare i soldati. «L’essere umano sta diventando l’anello più debole nei sistemi della Difesa» scriveva una nota della DARPA, in cui era sottinteso che alla stessa biologia serviva un aggiornamento. Un funzionario, parlando a un seminario organizzato dall’agenzia, invitò i presenti a immaginare soldati in grado di fungere da macchine della verità viventi o di comunicare telepaticamente grazie al computer.

Dopo un anno, nel 2003, la DARPA aveva profuso milioni di dollari sulle “interfacce cervello-macchina”, ma nel clima politico successivo all’11 settembre la dirigenza dell’agenzia (in seguito a un discusso programma di sorveglianza e sull’onda dei conflitti in Afghanistan e Iraq) cercò di ridisegnarne gli obiettivi. Il capo dell’Ufficio scienze della difesa della DARPA dell’epoca mi ha detto: «Avevamo questo interesse per la capacità di far muovere le cose con il cervello, e nessuno sembrava granché entusiasta di far volare gli aeroplani con la tecnologia». Il paese era in guerra e molti soldati tornati dal fronte senza un braccio o una gamba usavano arti artificiali che erano ganci o poco di più: un tipo di tecnologia che sembrava risalire alla Guerra Civile. La DARPA ne dedusse che doveva concentrare i finanziamenti alla tecnologia cervello-macchina sull’obiettivo di risanare i feriti, anziché sulla costruzione di superguerrieri. «In tutta onestà, così le cose si sono fatte più semplici» ha aggiunto il funzionario. «Se qualcuno avesse chiesto “Perché spendete tutti questi soldi?”, in un certo senso la finalità era duplice. Come si poteva sostenere che non dovevamo farlo?» I funzionari organizzarono per il loro direttore una visita al Walter Reed Army Medical Center, per incontrare soldati che avevano perso le braccia. Toccato da quella esperienza, destinò più di cento milioni di dollari a un nuovo programma, chiamato Revolutionizing Prosthetics.

Nel 2005 Schwartz andò in un albergo nel Maryland, per una presentazione della nuova iniziativa della DARPA. Era condotta dal colonnello Geoffrey Ling, un neurologo dell’Esercito che si era occupato degli amputati in Afghanistan, molti dei quali erano bambini. L’agenzia aveva assoldato Ling dopo aver saputo che aveva lavorato a lungo su un dispositivo (simile a quelli che si vedono nei film di Star Trek) in grado di analizzare gli organi interni senza bisogno di interventi chirurgici. All’incontro Ling, in un’impeccabile uniforme azzurra, parlò in modo ispirato della missione di ricostruire il corpo ferito, muovendosi con i gesti enfatici di un oratore consumato mentre scienziati e tecnici davanti a lui piluccavano cose da bere e da mangiare.

In soli quattro anni, spiegò Ling, la DARPA voleva un braccio robotico che funzionasse come uno vero. Doveva anche pesare come uno vero. Essere forte come uno vero. Muoversi senza fare rumore come uno vero. Doveva essere modulare (dato che non tutti gli amputati perdevano il braccio dallo stesso punto), il che significava che l’alloggiamento per la batteria non poteva essere unico. Insomma, l’agenzia voleva il braccio robotico più avanzato che fosse mai stato realizzato. Allo stesso tempo, la DARPA voleva finanziare un programma agguerrito di neuroscienze per consentire a un soggetto umano di adoperare il braccio con il “controllo neurale”. Come spiegò Ling poco dopo l’incontro, «Vogliamo che i nostri soldati siano in grado di suonare il piano. Non strimpellare con due dita, ma un pezzo classico, come Brahms». Per raggiungere questi obiettivi, era pronto a raccogliere centinaia di ricercatori che lavoravano in enti e istituzioni in tutto il paese.

Schwartz mi ha detto che molti ricercatori erano scettici, «mentre io, da boy scout del Minnesota, dissi in pratica: “Sì, datemi i soldi e lo faccio!”». Inviò una proposta, ma Ling gli preferì l’Applied Physics Laboratory, un mega-fornitore del governo con sede alla Johns Hopkins. Anche se quest’ultimo non sapeva praticamente nulla di neuroscienze, dato che dalla Seconda Guerra Mondiale aveva solamente costruito veicoli spaziali e testato missili, Ling riteneva di aver bisogno di un contraente che avesse esperienza in progetti tecnici di grandi dimensioni. Dal suo punto di vista, l’A.P.L. avrebbe gestito l’equivalente in bioingegneria di una missione sulla Luna.

Ad ogni modo Schwartz ne trasse vantaggio. Ling gli propose di sovvenzionare anche la sua ricerca di base, dicendogli «Sei il mio asso nella manica». Con un contratto generoso, Schwartz avviò nuove sperimentazioni con le scimmie, sperando di dar loro la capacità di nutrirsi usando la robotica guidata dai loro cervelli. Dopo un anno, aveva raggiunto risultati abbastanza realistici. Un ricercatore tiene in mano una caramella, una scimmia l’afferra con il suo braccio robotico, se la porta alla bocca e se la mangia. Un pomeriggio Schwartz mi ha fatto vedere un filmato dell’esperimento. Dopo aver ingoiato una caramella, una scimmia allontana il braccio dalla bocca per prendere un altro dolcetto, però poi si ferma e se lo riavvicina, per leccare qualche residuo. La decisione intuitiva stava a indicare che cervello e macchina si fondevano l’uno nell’altra. «L’abbiamo preso come un segno di “incarnazione”. Vedevamo roba del genere ogni giorno. Era stupefacente».

Nel 2011 un rappresentante dell’agenzia venne a dare un’occhiata alla ricerca di Schwartz e alla fine chiese con nonchalance: «Ma voi sareste interessati a fare del lavoro su esseri umani?». Anche se l’A.P.L. aveva fatto grandi progressi nella costruzione di un braccio, il suo sistema di controllo neurale non era decollato: così Schwartz venne ammesso insieme a un gruppo dell’University of Pittsburgh Medical Center. Alla fine ce l’aveva fatta a entrare.

Un nuovo braccio dell’A.P.L. (robotica per quasi mezzo milione di dollari) fu spedito a Pittsburgh. Non aveva nulla a che fare con ciò con cui l’università aveva lavorato sino a quel momento. Realizzato in nero con un materiale composito di carbonio, con articolazioni a risalto di alluminio lucido, sembrava uscito da Terminator. Le proporzioni si basavano su un essere umano alto 1,75 m. Pur pesando appena quattro chili, poteva sollevarne una ventina, e le sole dita potevano esercitare la metà di quella forza stringendo un oggetto. Nel complesso, le articolazioni di un braccio umano, dalla spalla alla punta delle dita, possono effettuare trenta movimenti discreti, ognuno dei quali è considerato un “grado di libertà”. Il nuovo braccio raggiungeva il nuovo primato di ventisei gradi, compreso un pollice funzionante che era in sostanza un robot a sé stante inserito sulla mano. Mike McLoughlin, il supervisore del programma Revolutionizing Prosthetics all’A.P.L., mi ha detto: «Se parli con quelli che l’hanno fatto, ti diranno che era un programma non meno complicato di tutti i veicoli spaziali che abbiamo costruito».

A quel punto Schwartz stava provando a lavorare con esseri umani. Nel suo studio con Tim Hemmes aveva registrato dati dalla corteccia motoria usando un wafer flessibile grande come due francobolli, qualcosa di simile a un’elettroencefalografia, ma dentro al cranio (per evitare di doverlo aprire più del necessario, i cavetti erano infilati nel collo e uscivano dal petto). Il dispositivo poteva fare solamente letture generali dei neuroni, permettendo a Hemmes, in una sperimentazione di trenta giorni, di raggiungere solamente tre gradi di libertà. Ma era sufficiente per muovere qualche articolazione di un braccio robotico, così che, quando verso la fine del periodo di prova arrivò quello realizzato dall’A.P.L., i ricercatori di Pittsburgh glielo collegarono subito. Hemmes non poteva controllare la mano o le dita del robot, ma fu in grado di usare il braccio per sfiorare la sua ragazza, un gesto che gli era interdetto da anni. In piedi davanti a lui, lei gli afferrò la mano di carbonio. Con gli occhi umidi e l’altra mano sul cuore, la ragazza disse piano «Baby».

7 ERANO I GRADI DI LIBERTÀ CHE I RICERCATORI SPERAVANO DI RAGGIUNGERE CON IL BRACCIO. «POI MI HANNO CHIESTO SE AVESSI UN OBIETTIVO» IO HO RISPOSTO: “”CERTO CHE HO UN OBIETTIVO. VOGLIO MANGIARE DA SOLA DEL CIOCCOLATO”.

Il gruppo di Pittsburgh mandò la registrazione di quel momento alla DARPA. Regina Dugan, che all’epoca ne era la direttrice, mi ha detto che quando arrivò, si precipitò con il suo vice alla scrivania di Geoff Ling per vederla. «Ci siamo guardati a vicenda» mi ha riferito. «Mi ricordo che c’era silenzio, avevamo tutti le lacrime agli occhi, sapendo che era successo qualcosa di importante». La cosa più importante di quel momento erano le sue potenzialità. Schwartz non usava ancora in soggetti umani la matrice di elettrodi Utah, che avrebbe sicuramente fornito risultati più sofisticati. Mi ha detto: «Dicevo sempre “Datemi un essere umano con un centinaio di elettrodi nella testa e posso farci qualunque cosa”». A quel punto si fece viva Jan Scheuermann, impaziente di essere quella persona.

 

III.

Aveva tenuto segreto il desiderio di partecipare all’esperimento, anche nei confronti del marito, che temeva potesse cercare di dissuaderla. Era un uomo preciso, un ingegnere che in precedenza aveva lavorato per la Borax. Quando quella sera lui tornò a casa, Scheuermann non disse nulla, sebbene l’idea la riempisse di entusiasmo. Pur tetraplegica, viveva una vita ricca, ma uno dei maggiori limiti della sua condizione era che raramente poteva aiutare gli altri: era chiaro che erano gli altri, in chiesa e a casa, a dare una mano a lei. Questa volta c’era la possibilità di rendersi utile, di contribuire ad avanzare la causa della scienza.

Quella sera Scheuermann provò a guardare un film, ma, come ha scritto in un libro di memorie inedito, My Life as a Lab Rat (La mia vita da topo da laboratorio), era troppo eccitata. «Da anni immaginavo di svegliarmi e di essere in grado, all’improvviso, di muovermi di nuovo: alzarmi dalla sedia a rotelle e camminare; andare di sopra e abbracciare mio marito e i miei due figli; vestirmi, mangiare e andare da sola in bagno; preparare la colazione per i miei; ballare, correre, sentire il vento tra i capelli! Ed ecco un nuovo sogno a occhi aperti che aveva una possibilità molto più concreta di realizzarsi. Immaginavo di muovere un braccio robotico. Non ero sicura di che cosa avrei potuto fare con il braccio, ma di sicuro ci potevo fare quello che aveva fatto Tim: ci avrei potuto toccare la mano di mio marito e carezzare delicatamente le guance dei miei figli. Lo immaginai per ore prima di riuscire a prendere sonno.»

Pochi giorni dopo, chiamarono dell’Università di Pittsburgh per spiegare che i ricercatori avevano bisogno di valutare se fosse adatta per l’esperimento. Di lì a poco incontrò Jennifer Collinger, docente alla facoltà di medicina di Pittsburgh, che avrebbe diretto lo studio. Scheuermann apprese che l’esperimento sarebbe stato più invasivo di quello di Hemmes: le sarebbe stato inserito un dispositivo nel cervello, con alcune parti sporgenti dalla testa. «Mi hanno detto: “Ti è chiaro che stai accettando un intervento volontario al cervello?” e io ho risposto: “Sì, va benissimo, muoverò quel braccio robotico!” E loro: “Guarda, ci saranno due piedistalli che ti sporgeranno dalla testa, per un paio di centimetri, e ci rimarranno finché non li toglieremo”. E io: “OK, certo. Voglio muovere quel braccio robotico con la mente!”»

I ricercatori spiegarono che la speranza era di raggiungere con il braccio sette gradi di libertà, un obiettivo posto da Schwartz per la DARPA. «Poi mi hanno chiesto se avessi un obiettivo» ricorda Scheuermann. «Secondo me pensavano che avrei detto che volevo toccare i miei figli, o mio marito. Io ho risposto: “Certo che ho un obiettivo. Voglio mangiare da sola del cioccolato”. Mi aspettavo che ridessero, e invece non hanno riso. Si sono guardati l’un l’altro e hanno detto: “Sì, ci dovremmo riuscire”. E così la mia battuta è diventata uno degli obiettivi del nostro studio.»

Quella sera condivise il suo segreto con il marito mostrandogli il video di Hemmes sul proprio computer. Dopo averlo visto, lui le suggerì di candidarsi. Con cautela, Scheuermann gli rispose che lo aveva già fatto: provò sollievo nel vederlo entusiasta, tanto da elencare le qualità che avrebbero fatto di lei un buon soggetto. Nei giorni successivi Scheuermann fu sottoposta a una risonanza magnetica funzionale, per capire se la sua corteccia motoria, dopo una decina d’anni di tetraplegia, continuava a funzionare normalmente. (Sorprendentemente, la risposta fu positiva.) Poi le fissarono al cuoio capelluto i sensori per l’elettroencefalogramma. Mentre le monitoravano il cervello, si rese conto di essere in grado di muovere grossolanamente il cursore su uno schermo.

Nel corso dei primi incontri Schwartz vide Scheuermann solo per poco tempo. Il progetto Revolutionizing Prosthetics comprendeva un gran numero di persone, fra cui alcuni postdoc, una neurochirurga ed esperti in tecnologia assistiva. Schwartz era vicino a realizzare un’obiettivo a cui aspirava da tempo, ma era troppo occupato dai dettagli per fermarsi a pensarci. «È un po’ come andare sulla Luna» mi ha detto. «È pieno di persone preoccupate per la programmazione e gli aspetti tecnici. Siamo più presi dalle minuzie, da come combaceranno le varie parti.» La transizione agli esperimenti sugli esseri umani aveva portato molte incognite, dalle nuove attrezzature agli interventi chirurgici più complessi all’inesperienza dei ricercatori arrivati da poco. «Non c’era alcuna garanzia che avessimo l’abilità e la possibilità di farlo funzionare in un essere umano.»

I 96 ELETTRODI ERANO PENETRATI NELLA SUA TESTA COME I TACCHETTI DI UNA SCARPA DA CALCIO NELLA TERRA MORBIDA

Nel febbraio 2012, dopo mesi di preparazione, Scheuermann fu ricoverata in una camera d’ospedale per i preparativi per l’intervento chirurgico. «Mi hanno salutata in tanti, e sono sicura che dietro le mascherine sorridevano» ha poi ricordato. «Ma i sorrisi non li vedevo: vedevo solo lucine, persone in maschera e camice, e vassoi di attrezzature mediche. A quel punto mi si abbatté addosso la solennità di ciò che stava per accadere.»

Impiantare una matrice Utah richiede un’estrema precisione. Dopo una scansione 3D della testa di Scheuermann mediante laser, fu contrassegnata una posizione; una parte del cuoio capelluto venne rasata e la neurochirurga – Elizabeth Tyler-Kabara, che aveva operato gli animali di Schwartz – tagliò e sollevò un lembo di pelle. Con un trapano, iniziò a perforare tutt’attorno al sito. Minuscole schegge di osso si ammucchiavano come neve attorno alla punta.

Mentre la chirurga apriva il cranio di Scheuermann, le matrici Utah erano pronti su un vassoio vicino. Ognuno era un quadrato di quattro millimetri di lato, non più grande di una “W” stampata; erano stati ricavati da un blocco di silicio che era stato affettato, trattato chimicamente e quindi inciso con un acido finché la superficie non aveva incominciato ad assomigliare a un minuscolo letto di chiodi. Ogni quadratino inciso era stato spedito a Pittsburgh con il suo piedistallo, realizzato in titanio: il contatto che sarebbe stato montato sopra la testa di Scheuermann. Erano legati insieme da un cavo composto da novantasei fili d’oro, uno per ciascun elettrodo.

Tyler-Kabara ne avvicinò uno e avvitò accuratamente il piedistallo nel cranio, mentre la matrice pendeva da una palla di cera montata sul cuoio capelluto di Scheuermann. Una volta fissato il piedistallo, la chirurga posò la matrice a faccia in giù sulla corteccia nuda, con i microelettrodi pronti a penetrare nel cervello. Spingendoli a mano si sarebbe rischiato di danneggiare il tessuto o di indirizzare male il dispositivo; era necessario un approccio balistico. Un iniettore pneumatico a forma di bacchetta era posizionato esattamente sopra l’impianto: avrebbe sparato la matrice con un colpo secco a circa 40 chilometri all’ora. Il colpo doveva essere sincronizzato con la respirazione di Scheuermann; a ogni respiro il cervello saliva e scendeva mentre fluttuava nel liquido cerebrospinale in movimento all’interno del cranio, ed era cruciale impiantare quando la corteccia arrivava alla massima altezza.

Tyler-Kabara chiese a uno dei ricercatori di Pittsburgh del team di Revolutionizing Prosthetics di premere il pulsante. Tutti si fermarono per interiorizzare il ritmo dei movimenti cerebrali di Scheuermann. Poi, improvvisamente, fu attivato l’iniettore. Il rumore delle valvole che si aprivano e si richiudevano riempì la sala operatoria, insieme al flusso di aria compressa attraverso l’iniettore, il cui suono era un rapidissimo respiro meccanico che culminò in un clink metallico. In un attimo i novantasei elettrodi erano penetrati, come i tacchetti di una scarpa da calcio nella terra morbida.

Dopo che fu impiantato il secondo insieme di microelettrodi, venne rimessa in posizione la parte asportata del cranio di Scheuermann, ma con degli angoli smussati lungo i margini per far passare i cavi fino ai piedistalli. Il lembo di cuoio capelluto, cucito di nuovo, era stato accuratamente rasato in modo da lasciare abbastanza capelli per mascherare un po’ gli impianti in titanio. Poiché per tutta la durata dell’esperimento i piedistalli avrebbero occupato le ferite aperte, era prevista una frequente somministrazione di antibiotici, per ridurre il rischio di un’infezione cerebrale potenzialmente letale.

Nel momento in cui Scheuermann si svegliò, in un’apposita camera d’ospedale, provò un mal di testa lancinante. Gridò «Mi fa male, mi fa male» e poi rimproverò la famiglia per aver permesso che la sottoponessero a un intervento chirurgico non necessario al cervello. Le venne somministrato un antidolorifico e si addormentò. La mattina seguente il dolore era diminuito e lei chiese uno specchio per potersi guardare. Dalla sommità della testa sporgevano i due piedistalli, cilindri che ricordavano il mostro di Frankenstein, ciascuno del diametro di più di due centimetri, coperti per impedire all’umidità di penetrare nei punti di contatto. Scheuermann si ripromise di accoglierli: si disse che erano strumenti di esplorazione e li chiamò Lewis e Clark, come i due esploratori statunitensi che all’inizio dell’800 per primi attraversarono il Nordamerica e raggiunsero la costa del Pacifico.

Le matrici nella testa di Scheuermann erano come le sonde della NASA in quei primi momenti incerti che seguono l’atterraggio su un pianeta lontano. I ricercatori avevano preso ogni precauzione per assicurarsi che fossero nella posizione corretta all’interno del paesaggio corrugato del cervello. Durante le scansioni preparatorie con la risonanza magnetica, le avevano chiesto di immaginare di muovere la mano e il braccio per individuare le parti della corteccia motoria corrispondenti, ma non potevano essere certi di che cosa stesse immaginando. Per via di questa incertezza e della mancanza di esperienza nell’impianto di matrici in un essere umano, era possibile che i piccoli dispositivi si trovassero nel posto sbagliato. Come mi ha detto Schwartz, «Era possibile che si trovassero nell’area corrispondente al viso; forse non eravamo nemmeno nella corteccia motoria».

Non appena fu chiaro che Scheuermann non provava più dolore, Schwartz iniziò a registrare dati dalle matrici. «Penso a tutte le cose che potevano andare male» mi ha detto. E se i dispositivi si fossero guastati? Se Scheuermann avesse iniziato a sanguinare? O si fosse infettata? Aveva appreso da Georgopoulos a registrare più rapidamente possibile, a mettere al sicuro le informazioni. «La mia regola è che è da criminali non raccogliere dati se se ne ha la possibilità» dice. «Era un mio obbligo, dopo che lei aveva rischiato la vita.» Aiutò il team a caricare l’equipaggiamento su un carrello da portare nel centro di riabilitazione vicino all’ospedale dove era ricoverata. «Eravamo al punto “Bene, ora tocca a me!”»

Quando Scheuermann seppe che stavano arrivando i ricercatori, chiese alla sua paramedica di portarle un costume e aiutarla a indossarlo. Al loro arrivo lei era seduta lì, con un viso impassibile, e addosso orecchie rosa e grigie, baffi e naso da topo. Una coda serpeggiava dalla sedia a rotelle. I ricercatori sorrisero immediatamente, tranne Schwartz, che era visibilmente scontento.

«È una cosa buffa, Andy» gli disse lei. «Perché non ridi?»

«Perché non sei un topo da laboratorio. Lavori insieme a noi.»

Jennifer Collinger svitò la copertura di uno dei piedistalli, dopo di che venne collegato un cavo che univa una singola matrice Utah agli apparecchi elettronici sul carrello. Quando un neurone scarica, la frequenza dell’elettricità da una sinapsi all’altra si può convertire in un suono, una via di mezzo tra uno scoppiettio e un graffio. Il suono di molti neuroni che scaricano insieme assomiglia al rumore bianco di una radio non sintonizzata; un neuroscienziato l’ha definito una “sinfonia cerebrale”. I ricercatori spiegarono a Scheuermann che avrebbero collegato a un altoparlante le registrazioni dal suo cervello: così avrebbero capito immediatamente se le matrici erano nel posto giusto.

In piedi di fronte a Scheuermann, Schwartz le chiese di immaginare di muovere le braccia in vari modi: non si sentì alcun suono. Cercò di non mostrarlo, ma Scheuermann temette immediatamente che l’operazione fosse stata un fallimento. Poi immaginò di muovere il dito indice – nei test con l’EEG, erano venuti da qui i segnali più chiari – e il sistema reagì con alcuni schiocchi. A Scheuermann ricordò il suono dei “Rice Krispies quando ci si versa sopra il latte”; gli scienziati furono presi da un entusiasmo trattenuto a stento. Schwartz mostrò la mano aperta, come un allenatore di pugilato, e disse: «Colpisci!» Concentrandosi intensamente, Scheuermann immaginò di colpirgli la mano. L’altoparlante mandò di nuovo un lieve scoppiettio. Dopo aver spostato la mano, chiedendo a Scheuermann di colpirla di nuovo, Schwartz le fece immaginare di ruotare il polso. Dall’altoparlante scaturì una raffica sinfonica neuronale. «Eccoci!» fece lui con allegria. «In che verso stavi muovendo il polso?»

«Su e giù» rispose lei sorridendo.

«Che meraviglia!»

Quando fu dimessa dal centro di riabilitazione, Scheuermann era sollevata ed entusiasta. A casa teneva un appunto attaccato alla scrivania: “Sei più del corpo in cui vivi”. Alcune settimane prima dell’intervento, in una riunione di famiglia in occasione del Natale, i parenti si erano divertiti a trovarle risposte da dare agli estranei che le avessero chiesto perché aveva dei tubi di metallo che le sporgevano dal cranio. Uno propose di far finta che l’interlocutore avesse le traveggole, un altro suggerì un risposta in stile Star Trek: «La resistenza è inutile. Verrete assimilati».

Scheuermann trascorse quasi tutto il fine settimana dormendo. Lunedì andò per la prima volta nel laboratorio, una stanza senza finestre presso il Medical Center dell’Università di Pittsburgh, a venti minuti da casa sua. Il braccio robotico dell’A.P.L. era montato su un’impalcatura di travi di alluminio fissate a un muro. Per prevenire problemi in caso gli impianti robotici fossero impazziti, il braccio era progettato perché si fermasse se superava un perimetro invisibile a poco più di un metro. I ricercatori facevano in modo che Scheuermann non si trovasse mai in quello spazio.

VEDENDO IL ROBOT SCHEUERMANN DECISE DI CHIAMARLO HECTOR

Vedendo il robot per la prima volta, Scheuermann decise che anche lui aveva bisogno di un nome. A lei sembrava un “Hector” e volle che i ricercatori lo chiamassero così. (Hanno cercato di obbedire.) «Hector e io ci siamo confrontati» mi ha detto Scheuermann. «Io mi sarei presa il merito dei successi e, quando non sarei riuscita a fare qualcosa, lui si sarebbe preso lui la colpa dei fallimenti. Era d’accordo, ma forse perché parlo io anche per lui.»

In un angolo del laboratorio c’era un centro di controllo della missione: sei monitor a schermo piatto e un pannello di componenti elettronici per elaborare le informazioni provenienti dalle matrici Utah. Quattro computer avrebbero elaborato i dati dal cervello di Scheuermann, che venivano rappresentati sui monitor come una griglia di onde, ognuna delle quali rappresentava un millisecondo di attività elettrica da un neurone: la polifonia corale della cognizione, suddivisa in un insieme di voci soliste. Le matrici registravano a una frequenza pari a trentamila volte al secondo. Ogni sei ore e mezza trascorse da Scheuermann nel laboratorio, attraverso i cavi collegati a Lewis e Clark passava l’equivalente digitale di Avatar di James Cameron, proiettato sul grande schermo in 3D. Per rendere gestibile questo fiume di dati il sistema conservava solo le informazioni scientificamente rilevanti.

Scheuermann si avvicinò con la sedia a rotelle a Hector e attese che i ricercatori collegassero il suo cervello a un computer. La paramedica la aiutò con il cruciverba del Times, che teneva attaccato a un blocco per appunti su una coperta drappeggiata sulle ginocchia.

Visto che le matrici Utah tendevano a spostarsi nella materia gelatinosa della corteccia, per via dei movimenti naturali del cervello di Scheuermann all’interno del cranio, le letture provenivano da una popolazione di neuroni sempre diversa. All’inizio di ogni giornata le cellule potevano essere diverse anche per il 30% da quelle dalla sessione precedente. Era impossibile sapere come fossero tarati i nuovi neuroni riguardi alla direzione o alla velocità, e così ogni giorno il sistema doveva essere ricalibrato, senza che Scheuermann dovesse fare molto. Quando osserviamo un’azione, spesso il nostro cervello risponde a quel comportamento come se fosse il nostro: se osserviamo una persona che usa un cacciavite, alcuni dei neuroni nella corteccia motoria scaricano come se fossimo noi ad avvitare. (La corteccia motoria è spesso molto attiva quando leggiamo.) Per approfittare di questo effetto “specchio”, i ricercatori fecero guardare a Scheuermann Hector mentre eseguiva movimenti dettati da una morbida voce informatica: sinistra, destra, su, giù. Una folla di scienziati la guardava in silenzio mentre lei guardava il robot.

Schwartz mi ha detto che Scheuermann sembrava sopraffatta: gli impianti le risultavano ancora nuovi, e le pratiche di laboratorio non le erano familiari. Inoltre, malgrado l’effetto specchio permettesse ai ricercatori di stimare in che modo fossero tarati i suoi neuroni, «era una stima così approssimativa che il braccio faceva inevitabilmente molti errori». Per aiutare Scheuermann all’inizio delle operazioni, il team aveva sviluppato due strumenti software: un filtro direzionale che le impediva di far allontanare troppo il braccio e un “auto-controller” che poteva contribuire a guidare il braccio verso un obiettivo. Era necessario un equilibrio delicato: troppa poca assistenza da parte del computer e Scheuermann rischiava di perdere la motivazione; troppa, e non avrebbe imparato a controllare Hector da sola. Mettere in grado il suo cervello di imparare era fondamentale. Con l’allenamento una persona può raggiungere un controllo volontario sulle scariche di un singolo neurone per raggiungere un obiettivo.

Nelle prime prove di Scheuermann gli strumenti erano impostati in modo che il movimento del braccio venisse guidato quasi interamente dal computer, ma lei si sforzò ugualmente di comandare il robot. «Per tutto il tempo non avevo in mente altro che di riuscire» mi ha detto. «E quando ho provato per la prima volta, e non ha funzionato, mi è crollato addosso: “Oh, mio Dio… questo non era previsto!”. C’erano tante persone nella stanza, e ho capito che lavoravano insieme a me. Il successo del progetto dipendeva dal fatto che ci riuscissi e improvvisamente mi sono sentita un enorme peso sulle spalle, come se dovessi riuscirci a tutti i costi.» In realtà c’era un problema tecnico – uno dei computer si era piantato – ma Scheuermann, concentrata solo sui suoi tentativi di muovere il braccio, pensava che il fallimento fosse suo. Si fece forza e ci riprovò. «La seconda volta che ho guardato, sono riuscita a muovere il braccio, sono rimasta senza parole, e ho detto solo: “Ce l’ho fatta!”»

Muovere il braccio le richiedeva tutta la concentrazione: pensare “destra”, “destra”, “destra”, mentre visualizzava il proprio braccio che si muoveva verso destra. Disse alla squadra: «C’è stato un paio di volte in cui ho pensato in particolare di tirare un pugno forte e veloce, e il movimento è venuto forte e veloce. Immagino di trovarmi in un incontro di pugilato».

«Sabato ho fatto kickboxing» disse un ricercatore.

«Prova anche tu a fare così» gli consigliò Scheuermann.

Schwartz l’aveva incoraggiata a mettere da parte il lato attento e preciso del suo carattere. Sapeva dai suoi studi di psicofisica che Scheuermann doveva combattere contro un ostacolo biologico fondamentale. Ogni movimento verso un obiettivo si può suddividere in fasi distinte. Quando vogliamo fare qualcosa – per esempio prendere una tazza – le nostre braccia iniziano rapidamente il gesto, prima ancora che il cervello possa dare un senso visivo a quello che stiamo facendo. Schwartz definisce “balistica” questa fase e mi ha spiegato che può comporre anche il novanta per cento del gesto. Una volta che il cervello riesce a comprendere visivamente ciò che sta accadendo, il corpo comincia a perfezionare il movimento. Subito prima che le dita entrino in contatto con la tazza, è la vista a svolgere un ruolo dominante e si assicura che il corpo agisca con precisione. Poiché il controllo di Hector da parte di Scheuermann dipendeva interamente dalla vista, non beneficiava mai della fase balistica. La fase finale del movimento, piena di micro-decisioni e correzioni, costituiva per lei l’intero gesto.

Giunti alla seconda giornata, molti problemi tecnici erano stati risolti e Scheuermann cominciò a prendere il comando del braccio. Schwartz, che puntava a farla muovere in modo deciso, a un certo punto saltò accanto a Hector e le disse di schiaffeggiargli la mano. Mentre guidava il braccio verso il palmo di Schwartz, Scheuermann rimaneva concentrata e immobile. «Dai, forza!» le faceva lui, e giocarono a gatto e topo. Toccandole la mano robotica, lui le diceva: «Mi senti che ti spingo?» Era una battuta, perché era ovviamente impossibile, e tutti scoppiarono a ridere. Scheuermann aveva il viso illuminato dalla gioia. «Sì, eccome!» rispose. Nel giro di poche ore, era arrivata a fare quello che a Hemmes aveva richiesto un mese. Schwartz digitò una mail alla DARPA dal telefonino: «Pieno controllo cerebrale 3D!!!! Qui tutti si danno il cinque!!!»

Da più di dieci anni Scheuermann non era stata in grado di alzare un dito. Ora, all’improvviso, poteva usare il braccio nello spazio intorno a lei. Quello stesso pomeriggio, mentre dirigeva Hector verso vari bersagli – blocchi blu montati su una tavola – la stanza si fece silenziosa. Scheuermann era avvolta dal ronzio delle ventole di raffreddamento dei computer. A intervalli regolari, una gentile voce robotica le ordinava di passare al prossimo obiettivo. Alzando il braccio, Scheuermann sentì un’ondata di emozione. Chiuse gli occhi e serrò le labbra. Nonostante fosse determinata a mantenere la padronanza di sé, una lacrima le corse giù per una guancia. Il braccio si fermò. «Tutto bene?» chiese un ricercatore.

Scheuermann si sentì inondare dai ricordi. All’improvviso era di nuovo a casa, in California nel 1998, ai primi sintomi della paralisi. Parlando quasi sottovoce, disse ai ricercatori: «Sto in piedi in cucina, e sto cercando di prendere una ciotola, e non ci riesco». Più tardi, mi spiegò che cosa stava ricordando: «Era la prima volta che mi sentivo il braccio debole, e fu un brutto colpo. Mio Dio, e se poi si allarga?» La paramedica di Scheuermann le asciugò le lacrime, e l’esperimento proseguì.

Nei giorni successivi andò ancora meglio. Mentre i ricercatori correggevano i loro algoritmi, il cervello di Scheuermann correggeva le proprie risposte. Lei cominciò a chiamare Hector “il mio braccio”, un lapsus che divenne presto un’abitudine. «È successo senza che me ne rendessi conto» mi ha detto. «Mi veniva da dire: “Vediamo se riesco a fare questa cosa con il braccio”, oppure “Di là non ci arrivo con il braccio”.»

A un certo punto le si avvicinò Schwartz. «Sai secondo me qual è la cosa bella? Cominciano a essere movimenti coordinati e aggraziati, che è proprio quello a cui puntiamo.» Mentre parlava alzava il braccio con fluidità esagerata, per sottolineare l’idea. «È proprio il senso del tutto: non vogliamo movimenti robotici dall’aspetto stupido. Vogliamo proprio i tuoi movimenti, e io lo so che sono aggraziati!»

3 VOLTE ALLA SETTIMANA SCHEUERMANN FACEVA UN PELLEGRINAGGIO AL LABORATORIO E CI LAVORAVA PER QUATTRO ORE. NEL GIRO DI CIRCA UN MESE RIUSCIVA A STRINGERE A PUGNO LE DITA DI HECTOR, A PIZZICARE E AD AFFERRARE. DOPO DUE MESI I RICERCATORI DISATTIVARONO GLI ALGORITMI ASSISTIVI, DANDOLE IL PIENO CONTROLLO.

«Eccome!» rispose Scheuermann.

Sorridendo, Schwartz la rassicurò: «Ci stiamo arrivando.»

Tre volte alla settimana Scheuermann faceva un pellegrinaggio al laboratorio e ci lavorava per quattro ore. Nel giro di circa un mese riusciva a stringere a pugno le dita di Hector, a pizzicare e ad afferrare. Dopo due mesi i ricercatori disattivarono gli algoritmi assistivi, dandole il pieno controllo. A tre mesi aveva raggiunto l’obiettivo di Schwartz per la DARPA, sette gradi di libertà: era in grado di aprire e chiudere la mano, mentre la orientava ruotando il polso. Progrediva così velocemente che i ricercatori riuscivano a malapena a starle dietro. «Ricordo che una volta stavo passeggiando e mi dissi: “Accidenti, funziona davvero!”» mi ha raccontato Schwartz. «Me n’ero reso conto all’improvviso. È stato proprio… wow!»

A ogni sessione in laboratorio i movimenti di Scheuermann si facevano più intuitivi e le diventava difficile descrivere che cosa faceva per muovere il braccio. «Ho semplicemente imparato: guardavo l’obiettivo e Hector ci andava» mi ha detto. Sentiva che stava facendo ricorso a una parte di sé stessa trascurata da tempo. «Cinquantuno anni fa avevo imparato a prendere una mela, e questa parte se lo ricordava ancora… e la cosa mi riempiva di gioia.»

Sei mesi dopo l’inizio delle prove, il team era pronto a permetterle di mangiare da sola. Qualcuno venne mandato a comprare qualche tavoletta di cioccolato Dove. Dato che il braccio robotico spesso si surriscaldava, vennero congelate in modo che non le si squagliassero in mano. «Ci abbiamo provato il giorno prima del Ringraziamento» mi ha raccontato Scheuermann. «La tavoletta era stata aperta a metà, e il primo paio di volte mi ci sono colpita la guancia, o veniva verso di me e mordevo l’aria, e se ne andava da un’altra parte.»

Schwartz ha visto in lei l’istinto umano di conservazione. «A pensarci mette un po’ spavento: hai questo robot, pensi di poterlo controllare, ma in realtà forse non ci riesci, e genera venti chili di spinta, e te lo stai avvicinando alla faccia. Si vedeva che era preoccupata, ma allo stesso tempo voleva mangiare il cioccolato.» Dopo diversi tentativi, Scheuermann riuscì ad avvicinare il cioccolato a sufficienza. «Sono riuscita a prenderne un piccolo morso prima che Hector, senza che io facessi niente, me lo tirasse via» racconta. «Era solo un boccone piccolo, ma è stato il miglior cioccolato che abbia mai mangiato!» Si soffermò su queste ultime parole con una cantilena da scolaretta, unendo eccitazione e soddisfazione. Dopo quel morso, fece stringere a Hector il pugno in segno di successo.

Fin dall’inizio, Revolutionizing Prosthetics si era prefissa l’obiettivo di portare informazioni sensoriali al cervello, in modo da dare a persone come Jan Scheuermann non solo la possibilità di manipolare un braccio robotico ma anche di provarci sensazioni. Ciò l’avrebbe resa una protesi più naturale, ma poneva anche questioni profonde: se estrarre informazioni dal cervello può espandere il senso di autonomia di una persona, inserirvi informazioni, e così interferire con la struttura cognitiva fondamentale, non correva il rischio di diminuirlo?

Negli anni Sessanta, José Delgado, un neuroscienziato spagnolo della Yale University, aveva progettato un elettrodo radiocomandato che si poteva impiantare in profondità nel cervello di un animale. Attraverso il condizionamento, scoprì Delgado, la sonda si poteva usare per diminuire l’aggressività nelle scimmie. Nel 1964 fece un viaggio in Spagna e impiantò il suo elettrodo in un toro; poi, in modo teatrale, affrontò l’animale in un’arena, munito solo di un drappo rosso da matador e di un telecomando radio che controllava il dispositivo. Mentre il toro caricava, attivò l’impianto, ottenendo in modo spettacolare che l’animale smettesse di provare interesse per lui. In seguito Delgado usò gli elettrodi su pazienti psichiatrici. Secondo Scientific American, «Con la semplice pressione di un pulsante, poteva evocare sorrisi, ringhi, beatitudine, terrore, fame, logorrea, desiderio sessuale». In un libro intitolato Physical Control of the Mind: Toward a Psychocivilized Society (Controllo fisico della mente: verso una società psicocivilizzata) Delgado immaginò un’utopia basata sulla cognizione modulata meccanicamente. Un critico, testimoniando davanti al Congresso, lo descrisse come fautore di un “totalitarismo tecnologico”; era palese che una tecnologia simile si poteva usare in modo improprio. Dopo gli scontri razziali della fine degli anni Sessanta, due neurochirurghi di Harvard proposero di usare gli elettrodi neurali per sedare la violenza sociale. Nel 1972 uno psichiatra di Tulane li adoperò nel tentativo di provocare “eccitazione eterosessuale” in un uomo gay.

La DARPA era consapevole di questa storia. Nell’estate del 2012 arrivò una nuova direttrice, Arati Prabhakar, e dopo essere stata informata sulla ricerca nel campo delle neuroscienze decise rapidamente che l’agenzia doveva prestare maggiore attenzione al loro impatto sociale. Alcuni neuroscienziati esterni al programma stavano già sviluppando un impianto cerebrale che poteva dare a un roditore la capacità di percepire la luce infrarossa, e avevano persino iniziato a collegare insieme cervelli di animali. «Non voglio vivere in un mondo in cui sono i tecnologi a creare le risposte» disse Prabhakar ai suoi collaboratori. Unificò i programmi biologici della DARPA in un’unità chiamata Biological Technologies Office, diretta da Geoff Ling, ordinandogli di riunire un gruppo consultivo di etici, filosofi e neuroscienziati. «Come ogni tecnologia importante, questa ha le potenzialità di essere usata per il bene o per il male» mi ha detto. «Era questa la nostra posizione: riflettere su questi problemi: lo stupore e la meraviglia della ricerca e il suo peso.» L’agenzia andò avanti, con maggior ponderatezza.

Nel 2014 il team di Pittsburgh cominciò a occuparsi di un secondo soggetto tetraplegico, un ventisettenne di nome Nathan Copeland, per vedere se potevano incanalargli informazioni sensoriali direttamente nel cervello. Il braccio robotico progettato dall’A.P.L. poteva ospitare sensori sulla punta delle dita e, mentre Scheuermann non aveva gli impianti giusti per usare questa funzione, Copeland sì: due ulteriori matrici Utah incorporate nella corteccia somatosensoriale. Il suo sistema nervoso avrebbe formato un circuito chiuso con il robot.

I ricercatori sapevano che creare sensazioni naturali rappresentava una sfida tecnica maggiore rispetto al movimento di un braccio. È possibile far arrivare elettricità vicino a un gruppo di neuroni e innescare qualche reazione sensoriale, ma non è facile tradurre uno stimolo di questo tipo in una percezione dotata di sfumature, soprattutto perché gli impianti di oggi approssimano solo grossolanamente il modo in cui i neuroni interagiscono tra loro. Le informazioni sensoriali vengono elaborate tra le cellule cerebrali secondo schemi complessi che cambiano continuamente. Nessun impianto conosciuto riesce a funzionare in questo modo. La protesi neurale più riuscita, l’impianto cocleare, assomiglia al suo analogo biologico più o meno come un faldone di cartoncino somiglia a un computer portatile. Queste limitazioni vengono in parte superate in quanto è collegato al nervo uditivo; le informazioni, quando raggiungono strutture più elevate nel cervello, sono state già raffinate. Ma nel caso di Copeland i dati sensoriali sarebbero stati recapitati direttamente alla corteccia, il che significava che non avrebbero beneficiato di questo naturale processo di raffinamento.

Sebbene i sensori fossero posizionati sulla punta delle dita del braccio robotico, Copeland ne percepiva gli stimoli vicino alla base delle sue dita biologiche. A volte sembrava una pressione applicata alla pelle; altre volte, sembrava emanare dall’interno, dalle ossa. «Insomma, è un po’ strano» mi ha detto. E a parte il punto di provenienza delle sensazioni, davano impressioni familiari e strane allo stesso tempo. Copeland aveva inventato una tassonomia del formicolio che sentiva: “scintillante” o “a colpetti rapidi” o “penetrante-ronzante” o “spilloso”. Gli ho chiesto di descrivermi la sensazione, e mi ha risposto: «Non è come toccare un recinto elettrico. Non è come il mentolo, un formicolio fresco. Non sono spilli e aghi, che sono fastidiosi». Un sospiro. «Era semplicemente un formicolio! Non so. È una cosa stranissima!»

Quando Copeland riuscì a sentire con il braccio, la sua abilità sembrò migliorare, ma in generale il suo approccio differiva da quello di Scheuermann. Mentre lei cercava l’esattezza, lui aveva l’istinto di un giocatore di videogame e spesso cercava di svolgere i vari compiti in velocità. Era impaziente di mettere alla prova le proprie abilità in esperimenti non scientifici, di collegare il cervello direttamente a Final Fantasy XIV, «un’interfaccia diretta ai giochi per computer!» Un pomeriggio mi ha raccontato: «dico sempre: perché non chiamiamo il Guinness dei Primati, faccio una roba qualsiasi, ed ecco, record del mondo, mai fatto! Basta scrivere: “OK, ha sventolato una matita!”» Ciò detto, si è dedicato al compito successivo, un esperimento che assomigliava a un test dell’udito. Al suono di un segnale acustico, i ricercatori gli inviavano impulsi elettrici nella corteccia, per misurare la risposta del cervello. Copeland non doveva fare altro che rimanere seduto e descrivere ciò che provava.

È abbastanza naturale che l’immersione in un videogioco possa offrire a una persona paralizzata un profondo senso di liberazione. Prima che Scheuermann completasse gli esperimenti, anche lei aveva provato qualcosa del genere, e mi ha detto che era stato il suo momento più significativo in laboratorio. Lavorava con il team di Pittsburgh, avendo ormai raggiunto dieci gradi di libertà con il braccio, quando, un pomeriggio, Geoff Ling si incontrò con il direttore dei progetti dell’A.P.L., Mike McLoughlin, in un bar nel Maryland per parlare di questa tecnologia. «Stavamo pensando a qualcosa al di là delle protesi» mi ha spiegato McLoughlin. «Immaginiamo di avere un termostato Nest: una persona sarebbe in grado di entrarci in comunicazione e usarlo per regolare la temperatura, accendere le luci, lavorare con il computer, guidare l’automobile. Inizia a esserci il potenziale per cambiare radicalmente il modo in cui interagiamo con le macchine.»

Mentre i due si scambiavano idee, McLoughlin accennò al fatto che l’A.P.L. aveva costruito un simulatore di volo per i caccia F-35 e suggerì di collegare il cervello di Scheuermann al simulatore; Ling fu d’accordo. La sua opinione era che il ruolo della DARPA era di aprire nuove porte, non di perfezionare ogni singola idea. «Siamo un’agenzia della difesa, no?» mi ha detto. «Quindi, sì, stiamo facendo qualcosa di meraviglioso per aiutare le persone che soffrono di tetraplegia, ma pensavamo anche: come facciamo a vedere in pratica in che direzione ci porta tutto ciò?»

Collegare Scheuermann al simulatore di volo avrebbe senza dubbio attirato l’attenzione dei militari. Il pilotaggio controllato con la mente è un’idea di lunga data. Negli anni Ottanta la DARPA aveva preso in considerazione l’idea, usando l’elettroencefalografia. Tony Tether, ex direttore della DARPA, mi ha detto che a velocità elevate le accelerazioni a cui sono sottoposti i piloti possono rendere impossibile manovrare fisicamente un aereo. «Se per controllare l’aereo il pilota deve solo pensare, possiamo metterlo in un bozzolo all’interno del velivolo, che lo proteggerà ai “g” più alti, e così l’aereo sarebbe in grado di manovrare più velocemente.»

La DARPA interruppe questa linea di ricerca; l’EEG non era sufficiente. Ma l’idea riemerse in un film d’azione tipico della Guerra Fredda, Firefox – Volpe di fuoco, che raccontava la storia di un immaginario caccia sovietico, il MiG-31, nel quale, come spiega un personaggio, «Sei letteralmente collegato al sistema d’arma». “Firefox” è ormai un modo di dire per parlare di un obiettivo delle neuroscienze militari: unificare combattente e arma in un essere ibrido. Karen Moxon, pioniera delle interfacce cervello-computer, mi ha detto: «Ho fatto il dottorato in ingegneria aerospaziale all’Università del Colorado. All’aeronautica militare interessavano i muscoli, far crescere le piante in una stazione spaziale e Firefox».

L’emergere del combattimento con i droni, nell’ultima decina di anni, ha fatto immaginare ai funzionari della DARPA un ruolo aggiornato per l’aviazione controllata dal cervello. Un responsabile dei programmi che lavorava con Geoff Ling quando era in fase di sviluppo l’idea del simulatore F-35 mi ha detto: «È davvero un’idea da ventesimo secolo, quella di pensare alla funzione del pilota come persona che controlla un solo aeroplano. In futuro è molto probabile che passeremo a una relazione uno-a-molti, in cui il pilota controllerà forse quindici o venti mezzi e sarà al comando dello scontro aereo, piuttosto che gestire solo una cloche». Con gli impianti cerebrali una persona potrebbe comandare un intero stormo.

Ling e McLoughlin speravano di poter far provare a Scheuermann il simulatore dell’F-35, ma poiché il software era coperto da segreto militare non lo si poteva portare a Pittsburgh. Il gruppo di ricerca acquistò quindi un prodotto commerciale simile, insieme a un programma più semplice per l’addestramento. La prima simulazione fu con un aereo monomotore, un Mooney Bravo. Come per il braccio robotico, Scheuermann iniziò dalla visualizzazione, usando i movimenti immaginari del polso in due gradi di libertà – sinistra e destra, su e giù – per pilotare l’aereo. «È diventato istintivo molto rapidamente, direi nel giro di due minuti» mi ha detto. «Se volevo andare giù, andava semplicemente giù.» La sua prima vera prova con il Mooney è iniziata già in volo; le sembrava di librarsi sopra la coda del velivolo. Anche se l’immagine sullo schermo suggeriva che stesse vedendo l’aereo dall’alto, era pervasa dalla sensazione di starci dentro mentre l’apparecchio volava. «Ero in piedi, lontana dalla sedia, ero tra le nuvole, ero fuori dal mio corpo guasto. Stavo volando, ed era una cosa ancora più esaltante che mangiare cioccolato, ed è tutto dire.»

Volò attraverso una gola; sopra Pittsburgh, cercò di identificare casa sua, ma il simulatore non mostrava il paesaggio in modo sufficientemente dettagliato, e così decise di visitare i principali monumenti del mondo. Ritenendo monotona la Grande Muraglia cinese, chiese se poteva esplorare la Francia e l’Egitto: era possibile. Mentre volava, notò che il simulatore non solo le permetteva di muoversi fluidamente nello spazio, ma offriva anche un universo di fantasmi digitali: oggetti senza solidità, peso o massa. Scheuermann provò un enorme piacere nel volare attraverso le cose. «Sono partita dall’aeroporto Charles de Gaulle e sono passata attraverso la Torre Eiffel» mi ha detto. «Ho volato attraverso le piramidi e sopra Alessandria!» L’esperienza è stata estatica. Con l’aiuto del software di trascrizione vocale, Scheuermann tiene un diario; quella sera, di ritorno dal laboratorio, ha scritto:

Oggi ho pilotato un aereo.

Oggi ho pilotato un accidenti di aereo!

Ho 54 anni, sono tetraplegica da 14 anni e oggi ho pilotato un aereo! Con la mente sto ancora volando.

Andy Schwartz non partecipò a questa sessione. A suo avviso, Scheuermann aveva dimostrato un controllo cerebrale molto più sofisticato con il braccio robotico; al confronto, pilotare l’aereo, usando solo due gradi di libertà, era un’impresa futile scientificamente, che incarnava la spettacolarità teatrale da cui rifuggiva. Ma i funzionari dell’A.P.L. erano entusiasti. Oltre al Mooney, Scheuermann aveva pilotato l’F-35 simulato, anche se con maggiore difficoltà. «Jan Scheuermann è stata in grado di volare» mi ha detto McLoughlin. «Ha incarnato quell’aereo. È una cosa davvero potente, davvero potente.»

Al DARPA Geoff Ling proiettò un filmato di Scheuermann che volava, e ne descrisse l’enorme importanza. L’esperimento, riteneva, prefigurava cambiamenti evolutivi dell’organismo umano. «Ti rendi conto di cosa è successo?» mi ha detto. «Ci siamo appena sbarazzati dei confini dei nostri corpi. L’umanità sta arrivando a un altro livello, fratello! Riesci a immaginare un corpo con quattro braccia? O di avere altri due occhi? Il corpo che ci è stato dato è una cosa biologica. Potremmo liberarcene completamente.» Ling lasciò il posto nel 2015, ma il suo successore, Justin Sanchez, ha deciso di continuare a perseguire queste linee di ricerca transumaniste. Da allora la DARPA investe in una gran varietà di tecnologie neurali, tra cui in particolare un progetto per sviluppare impianti al di là della matrice Utah. È stato assunto un nuovo responsabile dei programmi per accelerare lo sviluppo di impianti cerebrali nel settore privato. «La porta verso il futuro è stata aperta, e presenta alcune sfide» mi ha detto. «Come risolviamo il problema in modo che non siano solo cento fili ma qualcosa di più potente, con maggiore larghezza di banda? E si riesce a renderlo wireless?»

Nel 2016 la DARPA ha iniziato a fare pressione sui ricercatori di Pittsburgh perché svolgessero ulteriori esperimenti di simulazione di volo. Una squadra dell’A.P.L. è tornata all’università con una nuova domanda: è possibile far percepire a un pilota certi aspetti del volo? È stato progettato un software per trasmettere avvisi e rotte di navigazione direttamente nella corteccia sensoriale di Nathan Copeland. Anziché guardare uno strumento o ascoltare i comandi, percepiva direttamente l’informazione.

In altre simulazioni, l’A.P.L. provò a dare a Copeland la possibilità di pilotare contemporaneamente due droni dal quartier generale nel Maryland, un primo passo verso il comando di uno stormo. «Volevamo che Nathan controllasse velivoli veri, quadricotteri» mi ha detto McLoughlin. L’idea era di condurre l’esperimento da remoto, con il cervello di Copeland collegato all’aereo via internet. Ma gli scienziati di Pittsburgh si opposero, sostenendo che, a differenza dei test di volo nella realtà virtuale, che fornivano informazioni su come una persona paralizzata potesse accedere a un computer, comandare droni fisici in un ambiente distante e non controllato non avrebbe dato molte informazioni scientifiche di valore. Inoltre poteva violare gli impegni nei confronti delle commissioni etiche e togliere tempo di laboratorio alla missione principale del progetto: la tecnologia assistiva per i disabili. «Hanno detto: “Non è una ricerca accademica”» mi ha riferito McLoughlin.

Poco dopo, l’A.P.L. richiese la restituzione dell’hardware che elaborava i dati dalle matrici Utah. Mentre l’università si affrettava ad acquisire materiale sostitutivo, l’A.P.L. andava avanti con il pilotaggio controllato dal cervello. Nel nuovo protocollo, mi ha detto McLoughlin, le matrici Utah sarebbero state impiantati in entrambi gli emisferi cerebrali di soggetti umani, per esperimenti che avrebbero consentito di controllare più droni. La DARPA ha iniziato a chiamare questa linea di ricerca Mind Flight. Quando ho chiesto a Justin Sanchez dell’allontanamento dell’agenzia dall’università di Pittsburgh, mi ha risposto: «Sapevamo che l’A.P.L. poteva esplorare questi altri problemi, il pilotaggio e cose del genere, e così abbiamo dato loro una possibilità. Abbiamo semplicemente preso una decisione di gestione strategica per andare in quel tipo di direzione».

Il contratto dei ricercatori di Pittsburgh con Revolutionizing Prosthetics è scaduto, ma hanno ottenuto milioni di dollari dai National Institutes of Health per continuare e allargare il progetto. Schwartz, nel frattempo, ha ripreso le ricerche per decodificare la cognizione del movimento. Più va a fondo nel cervello, mi ha detto, e più appare complicato, pieno di strutture non lineari che assomigliano ai cambiamenti meteorologici, al contempo rumorosi e ordinati, in cui i neuroni trasmettono informazioni in correnti incrociate e circuiti di feedback. Le traiettorie che ha scoperto potrebbero essere considerate come pensieri in forma grezza, ma è riluttante a descriverle in questo modo. «Bisogna fare una piccola distinzione. Solo perché otteniamo un segnale molto chiaro, non significa che sia ciò che sta effettivamente facendo la corteccia motoria.» Sepolto sotto le strutture rilevabili, è probabile che ci sia un ordine più profondo.

LA VITA DA TOPO DA LABORATORIO LE AVEVA ALTERATO LA PERCEZIONE DI SÉ

Schwartz si è incuriosito in particolare per una difficoltà inaspettata affrontata da Scheuermann. Ogni volta che provava a raccogliere un oggetto, come una palla o un cono di plastica, la matrice rilevava un picco di attività neuronale, e il braccio indietreggiava, come respinto da un campo di forza. «Se le facevo chiudere gli occhi, riusciva a prendere l’oggetto» mi ha detto Schwartz. «E se allontanavo l’oggetto, riusciva a chiudere la mano. Questo mostra in modo piuttosto convincente che c’era qualcosa nel concetto di interazione con gli oggetti che andava oltre la nostra capacità di decodifica.» Per correggere il problema, il team ha attenuato il picco. «Ha funzionato» spiega Schwartz. Da allora il suo laboratorio cerca di capire perché il cervello di Scheuermann reagisse in quel modo. «È il mio argomento di studio preferito, ora. Il motivo per cui muoviamo un braccio è proprio per fare concretamente qualcosa.» Un viaggio scientifico iniziato con un’indagine sulle leggi cognitive del movimento lo stava ora conducendo a nuove domande: come comprendiamo gli oggetti intorno a noi – il loro peso, la loro fragilità, la loro rigidità – prima di arrivare a toccarli? E anzi: come facciamo a vedere il mondo?

Qualche anno fa Jan Scheuermann è stata bruscamente separata da Hector. Un giorno, i ricercatori che si stavano preparando a collegarla a un computer notarono qualcosa di allarmante: la pelle si stava staccando da uno dei piedistalli, rivelando un cavo sotto il cuoio capelluto. Questa apertura aumentava il rischio di un’infezione letale al cervello, e i ricercatori hanno iniziato a prendere in considerazione le varie opzioni: riparare la pelle con la chirurgia plastica o terminare l’esperimento. Schwartz, che temeva che il cavo potesse trasportare batteri nel cervello, raccomandò che i dispositivi fossero rimossi immediatamente. Nel giro di due giorni, i ricercatori avevano programmato il ritorno in sala operatoria.

Scheuermann apprezzava che i ricercatori considerassero la sua salute al di sopra di ogni altra cosa, ma capiva anche che la conclusione dell’esperimento avrebbe significato che il suo ruolo di esploratrice cognitiva sarebbe finito. L’intervento fu così improvviso che non ebbe il tempo di tornare in laboratorio, usare l’interfaccia cerebrale un’ultima volta e neppure di rivedere l’attrezzatura.

La sua vita da “topo da laboratorio” aveva alterato il modo in cui vedeva sé stessa. Mentre era in corso il progetto, aveva guardato i video che la riprendevano in laboratorio, chiedendosi: “È possibile che questa persona che sembra così minuscola sia davvero io? Rivide più volte un certo filmato, alla ricerca di indizi. «Accettavo ogni volta un po’ di più il fatto che quella donna ero in effetti io» ha scritto nelle sue memorie. «Guardavo al di là del corpo guasto e vedevo la luce nei miei occhi, sentivo la gioia nella mia voce e ascoltavo il mio entusiasmo.»

Subito dopo che le furono rimossi i piedistalli, Lewis e Clark, suo marito e i suoi figli la portarono al cinema. «Il sole splendeva sui colli oltre il fiume, mettendo in evidenza i colori gloriosi dell’autunno» ha scritto. «Mi stavo beando della compagnia della mia famiglia e di quella splendida giornata. Ricordo di aver pensato quanto fosse bella la vita e quanto fossi fortunata. Poi, nel corso dei venti minuti di macchina per tornare a casa, accadde. Passai da quella beata felicità a diventare una cosa piagnucolosa e singhiozzante. Mi aveva improvvisamente sopraffatto la perdita di Lewis e Clark e il significato della loro assenza. Non avrei mai più controllato Hector. Era tutto finito. Avrei potuto visitare il laboratorio, ma non mi sarei mai più collegata, non avrei mai più fatto muovere Hector. Mi si abbatté addosso la piena portata della mia perdita, e piansi.» Scheuermann sperava di rivedere il braccio un’ultima volta, per parlargli. «Avevo bisogno di dirgli che mi sarebbe mancato, e sapevo che io sarei mancata a lui. Hector doveva sapere che avevamo passato dei bei momenti insieme, ma che andava bene che adesso si divertisse un po’ con qualcun altro ora e raggiungesse nuovi risultati con quella persona. Non volevo che Hector sentisse che mi stava tradendo stabilendo una connessione con qualcuno di nuovo. Mentre ci riflettevo su, mi rendevo conto che quello che mi serviva veramente era dirle a me, tutte queste cose.»

Col tempo, il senso di perdita si dissipò. Era felice di sapere che Copeland aveva infranto alcuni dei suoi primati. Pensò a loro due come a esploratori gemelli, i numeri 001 e 002 che si avventurano in una zona inesplorata dell’esperienza umana. Era pervasa di gratitudine e di uno scopo nella vita. «L’ho fatto!» si diceva. «Ho spostato un braccio robotico con la forza del pensiero. Ho manovrato il polso e le dita di Hector e siamo entrati nella storia della tecnologia! Ora posso parlarne, posso condividere con tutti l’entusiasmo del nostro studio, le emozioni che ho vissuto e i progressi che abbiamo fatto. Chi più fortunato di me?»

[Traduzione dall’inglese di Alessandro de Lachenal e Daniele A. Gewurz]