La gravity assist (“effetto fionda”) è la tecnica che fa acquisire a una sonda spaziale la velocità necessaria a lunghi percorsi senza bisogno di energia propria, grazie alla forza gravitazionale e al moto di un pianeta. Ma per futuri viaggi nello spazio con equipaggio dobbiamo fare i conti con le distanze enormi e i tempi brevi della vita umana.
Martin Rees, cosmologo e astrofisico, è stato tra i protagonisti di alcuni passi avanti in questi campi fatti nella seconda metà del secolo scorso. Compagno di studi di Stephen Hawking, conosciuto nel 1964 quando già manifestava la propria malattia degenerativa, ora membro del Trinity College di Cambridge e con un dottorato onorario ad Harvard, si è spesso occupato dei problemi e delle sfide del ventunesimo secolo. Nel suo libro On the Future: Prospects for Humanity, per esempio, riflette su relazioni e interdipendenze fra genere umano, scienza, tecnologia, intelligenza artificiale e robotica, mentre nel pezzo pubblicato qui esplora il futuro dei viaggi nello spazio, cavallo di battaglia dell’innovazione tecnologica e dell’esplorazione del ventesimo secolo.
Intuitivi principi di fisica e matematica
Quali sono i concetti di fisica e di matematica alla base dei viaggi nello spazio? Prima di tutto occorre comprendere che un proiettile sparato sulla Terra, sulla Luna in orbita attorno alla Terra, su un satellite attorno a Marte, su un pianeta attorno alla propria stella obbedisce sempre a quella legge di gravitazione universale che, scoperta nel diciassettesimo secolo grazie anche a Galileo, Keplero, Hooke e Newton, ha rappresentato un vero cambiamento di paradigma e ha definito la fisica come scienza moderna. Arrivarci con l’intuizione non è troppo difficile. Se lanciamo un oggetto verso l’alto, esso “sente” (oltre all’attrito dell’aria, che per ora trascuriamo) una forza, proporzionale alla propria massa e a quella della Terra, che tipicamente lo fa ricadere verso il basso. Ma se immaginiamo di poterlo tirare abbastanza forte (e non perfettamente in verticale), possiamo immaginare come la stessa forza possa farlo entrare in orbita attorno alla Terra, visto che proprio verso la Terra sarà diretta. In sostanza, un razzo è sparato verso l’alto e, a seconda della velocità e dell’angolazione a cui rilascia la sua navicella, quest’ultima può inserirsi in un’orbita chiusa attorno alla Terra (ellittica come prevede la legge di Newton) oppure in una traiettoria aperta (parabolica).
La seconda cosa da capire è che nello spazio vuoto interstellare, non essendoci aria, non c’è neppure attrito, per cui i corpi procedono a velocità costante in assenza di perturbazioni gravitazionali, cioè di attrazioni da stelle, pianeti o altri corpi massivi. Per il razzo abbiamo trascurato attrito e altri effetti legati all’aria, che rendono più difficile mandarlo in orbita, ma queste complicazioni sono confinate nel primo strato attorno alla Terra che esso attraversa, uno strato spesso “solo” 500 km (e quindi molto sottile se lo si confronta con il raggio del nostro pianeta che è più di 6.000 km).
Il terzo elemento importante su cui riflettere è l’effetto “fionda gravitazionale”, o gravity assist, che è comunemente usato per indirizzare navicelle verso i pianeti esterni sfruttando i moti dei pianeti per guadagnare velocità (aumentare la velocità tramite motori di bordo risulterebbe proibitivo per costi e consumi energetici). Per comprendere l’effetto fionda pensiamo alle montagne russe. Trascurando sempre l’attrito, il trenino sale in cima, scende aumentando la velocità e poi ritorna in alto rallentando ma senza bisogno di alcun motore. Detto in altro termini, quando si è in cima si ha un’elevata energia potenziale gravitazionale che in discesa si converte in energia cinetica (velocità al quadrato, essenzialmente) e che poi si riconverte in energia potenziale durante la risalita successiva, in modo che l’energia totale del sistema, che è la somma delle due, sia conservata. Ora pensiamo di poter saltare al volo sul treno della montagna russa che si sta muovendo ad alta velocità (e quindi ha in sé una certa quantità di energia cinetica), per esempio su un lunghissimo binario diritto. Quando saremo in cima avremo anche acquisito l’energia cinetica del treno e quindi scendendo continueremo a proseguire almeno alla sua velocità. Allo stesso modo, una navicella, se “aggancia” un pianeta mettendosi temporaneamente in orbita aperta e lo segue, può acquisire velocità grazie all’energia cinetica acquisita per il fatto che il pianeta si sta muovendo a sua volta in una certa orbita attorno al Sole. Senza l’effetto fionda, inviare navicelle verso i pianeti esterni del sistema solare sarebbe stato impossibile in termini di costi troppo elevati e tempi troppo lunghi.
Ottimismo scientifico e pessimismo politico
Il viaggio nello spazio verso pianeti lontani che orbitano attorno ad altre stelle ci fa scoprire, oltre ai limiti di velocità, anche i limiti di tempo, legati almeno alla durata della vita umana. Le condizioni della vita spaziale sono ostili e la sfida di viaggi nello spazio che vedano impegnate generazioni successive è al di là delle nostre attuali possibilità. L’ibernazione, tra l’altro, ha anch’essa dei limiti, come possiamo constatare aprendo il freezer di casa e controllando le scadenze sugli alimenti.
D’altro canto, aumenta vertiginosamente la velocità di elaborazione dei computer e quindi crescono le capacità computazionali e di intelligenza artificiale. È possibile allora che un approccio matematico e quantitativo ci possa aiutare ad affrontare anche i problemi legati a questi viaggi nello spazio? Almeno secondo Rees, la possibilità di diffusione della nostra civiltà e di un eventuale contatto con altre è da vedere più nello sviluppo di tecnologie informatiche, robotiche e cibernetiche che nel trasferimento fisico di passeggeri umani. Nell’ipotesi che ci resti, come umani, una civiltà da diffondere… Rees si dichiara un ottimista scientifico ma un pessimista politico. Possiamo già quantificare, per esempio, i movimenti di merci e denaro tra Stati, i movimenti di massa dei popoli, la gestione, lo scambio e lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili per comprenderne le reali dinamiche. Ma il nostro futuro dipenderà dalla capacità di sviluppare strumenti di interpretazione e di utilizzarli per guidare una pianificazione sul lungo periodo e su scale globali. Forse però un premio di consolazione esiste, se pur amaro: c’è un limite ai danni che possiamo fare al pianeta. Possiamo far estinguere grandi mammiferi (tra cui noi stessi) in modo relativamente facile, ma la vita su scale più piccole, e in particolare quella microscopica (batteri ed eucarioti unicellulari) è molto robusta. Altre civiltà potrebbero partire dopo la nostra e forse abbiamo il modo di lasciare loro qualcosa, affinché possano imparare dai nostri errori.