Usata come strumento di marketing dalle località interessate, l’assegnazione delle “Bandiere blu” rivela delle incongruenze che si possono spiegare solo con la lettura dei criteri di assegnazione del riconoscimento. Dove la qualità delle acque non ha un ruolo di primo piano
Si fa presto a dire spiaggia da sogno, mare caraibico o paradiso per lo snorkeling. Le città rivierasche italiane che ambiscono a sventolare una bandiera blu devono presentare ben altre e più articolate credenziali se vogliono centrare l’agognato obiettivo. Così, accade che l’annuale classifica delle mete balneari più desiderate, capace di orientare in qualche misura le scelte dei vacanzieri, sia popolata da Comuni che spesso hanno poco a che fare con l’idea di un mare cristallino o di una spiaggia da atollo. Ma l’errore o, meglio, l’equivoco che investe larga parte dell’opinione pubblica è proprio quello di ritenere che la bandiera blu riguardi esclusivamente la qualità ambientale delle acque marine o degli arenili e delle aree circostanti.
Invece, i criteri e i fattori in gioco sono molti di più e consentono, nel caso italiano, un riscatto del Nord dello Stivale rispetto al Meridione o alle grandi isole che, nella percezione dei più, vengono considerati la meta migliore per il relax con sdraio e ombrellone.
Anche quest’anno scorrendo l’elenco delle città ‘Bandiera blu’ su base regionale, vediamo infatti che la piccola Liguria è in testa, in barba a Puglia, Sicilia o Sardegna che seguono distanziate. Addirittura, la sola provincia di Savona ha lo stesso numero di vessilli blu dell’intera Sardegna. E siccome il riconoscimento riguarda anche i litorali lacustri, il piccolo Trentino Alto Adige ha poche bandiere blu in meno della ben più vasta Sicilia. Le nostre isole maggiori sono peraltro entrambe superate dalla Toscana.
Basta scorrere i criteri di valutazione delle candidature per comprendere i contorni di questo ribaltamento rispetto al senso comune. La Foundation for environmental education (Fee), l’organizzazione non-governativa e no-profit nata nel 1981 nel Regno Unito con sede centrale a Copenhagen, cui fa capo il programma ‘Bandiera blu’, dichiara di aggiornare periodicamente i parametri di giudizio e di assegnazione del “bollino” di sostenibilità e qualità ambientale, che si è or mai trasformato in un importante strumento di marketing per le località interessate.
Il riconoscimento internazionale, istituito nel 1987 (anno europeo dell’ambiente), coinvolge ormai 50 Paesi a livello globale, con il supporto delle agenzie dell’Onu Unep (Programma delle Nazioni Unite perl’ambiente) e Unwto (Organizzazione mondiale del turismo).
Per quanto riguarda gli ultimi anni, i criteri internazionali di valutazione individuati sono stati in tutto 33, divisi in quattro categorie (altre riguardano la qualità degli approdi turistici). Lo stato fisico-chimico e biologico di acque e spiagge rappresenta solo una di queste macro-aree e naturalmente investe anche i para metri di trattamento delle acque reflue e la qualità di quelle di scarico. Per il resto, le città candidate devono dimostrare, attraverso un questionario, una specifica produzione documentale e a seguito di successive verifiche sul campo (controlli che in Italia si avvalgono anche della collaborazione del Comando Carabinieri per la tutela dell’ambiente o delle Capitanerie di Porto) di aver ben lavorato sul terreno dell’educazione ambientale, delle informazioni da fornire circa eventuali beni naturalistici e culturali presenti nell’area e persino sui servizi e sui comportamenti da tenere in spiaggia e nelle zone circostanti.
Ma c’è di più e i titolari delle concessioni balneari giocano spesso un ruolo cruciale nella candidatura di una località rivierasca. Infatti, la bandiera blu arriva se l’ente locale o il proprietario del lido istituiscono un Comitato di gestione della spiaggia, se gli habitat naturali sono correttamente segnalati, difesi e mantenuti, se la raccolta differenziata sull’arenile è ben organizzata, se c’è un adeguato numero di servizi igienici e spogliatoi che vanno ovviamente tenuti puliti, se viene fatto rispettare il divieto di campeggio e di circolazione dei veicoli, se si gestisce bene la presenza dei cani, se viene promossa la mobilità sostenibile attorno alla spiaggia. Contano persino una buona organizzazione per il salvataggio e il primo soccorso delle persone, la presenza di piani di emergenza in caso di incidente ambientale, la tutela delle prerogative dei disabili e addirittura “una fonte di acqua potabile deve essere disponibile sulla spiaggia”, spiega la procedura operativa dettata dalla Fee.
È evidente allora che un Comune dotato di una lunga spiaggia libera e poco frequentata e di un mare incontaminato, pur essendo considerato un paradiso terrestre da una larga fetta di turisti e visitatori, non può nemmeno sognarsi di ambire all’eco-label “Bandiera blu”.
Se si osserva la mappa dei premiati del 2024, si nota infatti, a titolo di esempio, che una provincia con mare e paesaggi notoriamente splendidi come il trapanese non ha alcun riconoscimento, l’agrigentino vanta la sola Menfi e in tutta la Sardegna meridionale ce ne sono soltanto due. Mentre il territorio di Rimini ne ottiene tre. È chiaro, dunque, che i parametri premianti non attengono necessariamente alla qualità della balneazione in senso stretto (per quanto essa venga dichiarata “criterio imperativo”) e che gli arenili liberi e senza servizi appaiono spacciati in partenza. Peraltro, trattandosi di un “contest” cui si partecipa su base volontaria, molti Comuni non presentano nemmeno la candidatura. Tirando le somme, tanto per dire, capita che Cesenatico abbia il vessillo blu e Lampedusa e Ustica no.
La Fee dichiara che “tutti i membri della giuria nazionale sono esperti in tematiche ambientali in quanto rappresentanti istituzionali, o specialisti privati”. Vengono formalmente invitati a far parte della commissione, con un proprio rappresentante, i ministeri del Turismo, dell’Agricoltura e dell’Ambiente, poi gli assessorati regionali al Turismo, l’Ispra, l’Iss, il Cnr e l’Associazione dei sindaci (Anci). Ci sono pure l’Ordine dei chimici e fisici, la sezione salvamento della Federazione italiana nuoto e non mancano ovviamente le associazioni dei balneari.
Data la risonanza che ogni anno ottiene l’assegnazione delle bandiere blu, accade spesso che ci sia una qualche coda polemica, almeno a livello territoriale, in seno alle comunità o da parte delle istituzioni locali che non ottengono il premio e che pensano di meritarlo. Dal mondo ecologista c’è chi mette in discussione i criteri di assegnazione del riconoscimento. Sebastiano Venneri, responsabile Turismo di Legambiente, spiega: “Per la Fee il criterio sovrano è quella della balneabilità delle acque. Ma questo non dice nulla sulla loro qualità e salubrità sul piano ambientale.
La balneabilità deve essere solo un prerequisito, una precondizione. Invece per ‘Bandiera blu’ è un’etichetta che non distingue poi i differenti gradi di salute ambientale del mare. Il problema è che in quasi tutta l’Italia i litorali vedono ormai un mare balneabile, ma certamente l’acqua di Jesolo non è quella di Pantelleria, anche se entrambe rientrano negli standard sanitari e hanno concentrazioni batteriche nella norma”.
Fino al 1996, Legambiente ha collaborato con il programma ‘Bandiera blu’. Poi ha lasciato e da anni con Goletta Verde analizza lo stato del mare e delle coste per l’assegnazione delle “vele” e nella guida curata assieme al Touring Club. “Nelle nostre analisi privilegiamo parametri strettamente ambientali – aggiunge Venneri – come la presenza di aree protette, l’assenza di costruito e abusi edilizi sulla spiaggia o la disponibilità di arenili liberi. È un altro punto di vista. Per carità, loro fanno il lo ro lavoro, tutte le valutazioni sono lecite e i riconoscimenti vanno sempre bene. Diciamo che ‘Bandiera blu’ si basa su un’idea antropocentrica per cui la spiaggia deve essere ben attrezzata e piena di servizi. Secondo me, è come se si giudicasse un ristorante solo dall’eleganza del coperto. Ma la qualità del cibo, ossia la salubrità del mare e della spiaggia, è un’altra cosa. Il criterio della semplice balneabilità non può bastare – conclude l’esponente di Legambiente – altrimenti sarebbe come dire che una piscina abbondantemente clorata è paragonabile al mare della Sardegna o che le acque ben depurate dell’alto Adriatico sono come quelle di Favignana. Per noi, località dove abbonda il costruito sul litorale e scarseggiano le spiagge libere, anche se mettessero in campo la migliore gestione dei servizi e degli spazi pubblici, difficilmente potrebbero ricevere le nostre cinque vele”.