In missione per conto dei coralli

Dici “restauratore” e subito pensi a un accigliato professionista in camice bianco che passa le sue giornate abbarbicato sulle impalcature di qualche chiesa a spennellare gli affreschi crepati. Poi, conosci Simone e scopri che si può fare il restauratore anche in una spiaggia assolata, con infradito e costume da bagno, per salvare una delle meraviglie naturali più affascinanti e fragili del mondo: la barriera corallina delle Maldive.

Non bisogna farsi ingannare dal suo cognome, Montano, perché in realtà Simone è un biologo, innamorato del mare, che ha trascorso gli ultimi 12 dei suoi 39 anni facendo la spola tra Milano e l’isola di Magoodhoo, nell’arcipelago delle Maldive, dove l’università di Milano-Bicocca gestisce il centro di ricerca MaRHE (The Marine Research and High Education Center) con l’obiettivo di studiare, proteggere e promuovere questo prezioso ecosistema marino e la sua biodiversità. Il progetto, nato nel 2009 dall’intuito del professor Paolo Galli, è poi cresciuto grazie a Simone e al suo compagno di studi Davide Seveso, con il quale ha iniziato a frequentare l’isola per la tesi di laurea.

«Siamo stati – ammette il ricercatore – gli studenti più fortunati sulla faccia della Terra. Tuttora sappiamo di essere profondamente odiati e invidiati dai nostri colleghi: stare alle Maldive è una cosa pazzesca, anche se ci andiamo pur sempre per lavoro. Questo significa doversi immergere con qualsiasi condizione del meteo e del mare, oppure trovarsi per settimane intere sotto la pioggia torrenziale nella stagione dei monsoni». A rendere tutto più facile, oltre alla bellezza del luogo, è senza dubbio l’ospitalità dei maldiviani, «persone umanamente fantastiche con cui abbiamo stretto legami di vera amicizia: alcuni dei bambini a cui facevamo fare le capriole in acqua dieci anni fa, una volta cresciuti, sono diventati nostri collaboratori». È anche grazie ai ricercatori della Bicocca se questi giovani hanno iniziato a guardare i coralli con occhi diversi. «I maldiviani spesso li danno per scontati, non se ne curano molto, così come noi facciamo con i nostri boschi: ora però stanno iniziando a capire gli effetti disastrosi che derivano dal loro depauperamento».

In poco più di dieci anni d’esperienza sull’isola, Simone e i suoi colleghi hanno già avuto modo di toccare con mano gli effetti del cambiamento climatico. Nel 2012 sono stati i primi a rilevare la presenza di malattie dei coralli che non erano mai state osservate nell’Oceano Indiano. Poi, nel 2016, è arrivato El nino a dare il colpo di grazia: il surriscaldamento anomalo delle acque superficiali ha stressato talmente tanto i coralli da indurli a rompere il rapporto di simbiosi con le alghe unicellulari che danno loro il colore e, attraverso la fotosintesi, il nutrimento. È il fenomeno del bleaching, il temutissimo sbiancamento, che fa morire i coralli di inedia. «C’era già stato un episodio simile nel 1998, che aveva causato la morte del 90% dei coralli nei primi 10 metri di profondità, ma in seguito c’era stato un bel recupero e nel 2015 avevamo osservato una situazione molto simile a quella antecedente il surriscaldamento», ricorda Montano. «Nel 2016, invece, le cose sono andate peggio: la percentuale di ricoprimento del fondale marino da parte dei coralli, che prima era al 60-70% con punte del 100%, è improvvisamente scesa al 10-15%: in alcune aree è arrivata perfino a zero e a distanza di anni non si vedono ancora segnali significativi di ripresa». Oltre allo sbiancamento e alle malattie, sono tanti i fattori che minacciano la salute dei coralli: il turismo selvaggio, l’inquinamento e non ultima la plastica, sia quella delle reti fantasma (perse accidentalmente o abbandonate sul fondale) sia quella delle più infide microplastiche, spesso scambiate per prede e ingerite dai piccoli polipi che formano la comunità “corallo”.

Simili pericoli possono avere conseguenze devastanti per l’intero ecosistema marino, arrivando a condizionare anche la vita degli esseri umani. La barriera corallina, spiega Montano, «non è solo un argine che protegge la costa dal moto ondoso dell’Oceano: è la casa-rifugio della biodiversità marina. Nella barriera vive il 25% delle specie marine conosciute, che sono meno del 10% di quelle che si stima siano realmente presenti. Perdere questa immensa ricchezza prima ancora di averla conosciuta del tutto significa danneggiare non solo il mare ma anche la pesca e il turismo. Inoltre significa precluderci la scoperta di molecole che potrebbero rivelarsi utili per la salute umana. Le barriere coralline sono un forziere dal valore economico inestimabile, che a livello globale potrebbe arrivare fino ai 10 trilioni di dollari».

Questa consapevolezza è fortunatamente cresciuta negli ultimi decenni. «Si è compreso che le strategie di conservazione della barriera corallina non sono più sufficienti: proteggerla non basta, bisogna restaurarla», spiega Montano. È così nata l’idea della ecological restoration, inizialmente basata su due tecniche principali: il trapianto diretto, che consiste nel “riattaccare” i coralli che si staccano dal reef, e la traslocazione, cioè il trasferimento di colonie di coralli da una barriera in buona salute a una danneggiata. Negli ultimi anni, continua l’esperto, sono state sviluppate anche altre tecniche più specifiche come il gardening, che prevede l’impianto nella barriera danneggiata di piccoli coralli coltivati in “vivai” sott’acqua. «È uno dei metodi più diffusi, perché è poco costoso e garantisce risultati immediati, ma richiede comunque un certo sforzo umano sott’acqua per maneggiare colonie che arrivano a pesare due chili e che devono essere piantate con una precisa densità per garantire un buon attecchimento», osserva Montano. Per attaccare i nuovi coralli si possono usare colle epossidiche, chiodi, «ma noi preferiamo di gran lunga il cemento marino, un composto del tutto naturale formato da sabbia e microsfere di silice: impiega qualche giorno in più per solidificare, quindi bisogna controllare che il moto ondoso e gli animali non rovinino il lavoro fatto, ma almeno non risulta inquinante». Esistono infine altre tecniche di restauro ancora più costose, come la “semina in mare”, che prevede l’utilizzo di imbarcazioni di grandi dimensioni per raccogliere i gameti liberati in acqua dai coralli durante il periodo della riproduzione: una volta concentrati all’interno di vasconi, determinano un boom di nascite di larve di corallo che vengono poi seminate lì dove c’è più bisogno.

Al di là del budget a disposizione, però, tutte le attuali tecniche di coral restoration presentano un limite: «Utilizzano poche specie di coralli, quelle che hanno una maggior capacità di crescita, e questo rischia di ridurre la biodiversità genetica degli esemplari, rendendoli più vulnerabili alle malattie», ricorda l’esperto. Per questo motivo diventa sempre più urgente sviluppare nuovi metodi e materiali per curare i coralli. Come il cerotto smart che i ricercatori dell’università Bicocca hanno sviluppato con l’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova: «Sapevamo che loro stavano lavorando a un cerotto intelligente per curare le ferite umane, così abbiamo pensato di svilupparne uno biodegradabile e biocompatibile per i coralli: una novità assoluta, se pensiamo che prima si poteva ricorrere solo alla totale o parziale rimozione della colonia malata, con conseguente ulteriore danno alle comunità coralline», afferma Montano. Il dispositivo è composto da uno strato contenente il farmaco e un secondo strato che impedisce il rilascio del principio attivo nell’ambiente. Positivi i primi test di efficacia, condotti per dieci giorni in un acquario e per quattro mesi alle Maldive sui coralli della specie Acropora muricata, tra quelle considerate a rischio dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn).

Nonostante questi successi resta ancora tanto lavoro da fare, soprattutto dopo mesi di pandemia che hanno costretto il centro MaRHE alla chiusura. «La mancata manutenzione delle nursery di coralli ha vanificato anni di sforzi: non vediamo l’ora di tornare per rimetterci all’opera», ammette Montano. «Ormai la nostra è diventata una missione, non possiamo fermarci proprio adesso: stiamo entrando nel decennio degli oceani, come indicato dall’Onu, e dobbiamo dimostrare di essere disposti a fare di tutto per proteggerli».

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